La vita è un continuo atto di separazione

Ci sono giorni che vorresti non arrivassero mai.

Sono i giorni cupi, che ti scuotono come in un brutto incubo senza fine, come in una bolla d’aria che sta per scoppiare e che ti lascia senza ossigeno, come una fitta alla pancia che ti squarcia dentro, che risuonano di una violenza inaudita contro la quale non esistono antidoti nè soluzioni.

Soprattutto perché quel giorno maledetto è arrivato e ti sembra di averlo causato tu stessa, desiderando all’infinito di regalare un week end da favola ai tuoi genitori, finalmente riuniti tutti assieme, nell’aria di montagna e nella spensieratezza della neve, pensando a tutto fuorché a dover maledire ogni cosa.

Si sa, ci sono persone brave a regalare doni materiali, generose e attente ad ogni dettaglio, e poi ci sono quelle brave a regalare esperienze di vita, piccole fughe dal quotidiano, avventure che valgano la pena di essere consumate. Ecco, io mi rispecchio nell’ultima categoria, perché la cosa che mi sento di apprezzare di più è il tempo dedicato a qualcuno che amiamo.

Poi però il vuoto assoluto, il rumore sordo della tragedia, l’impotenza che si fa reale: quel week end tanto desiderato si trasforma in un dramma, in una maledetta corsa contro il tempo che si dilata come in uno scoppio di bomba.

Ogni tua sicurezza si fa nulla, ogni tua parola si fa silenzio, ogni battito di ciglia si fa pesante tanto da non trovare neanche la forza per piangere.

Così, nella desolazione che non lascia spazio a niente, niente di saggio, ti sovviene nella mente la canzone di Guccini, ”Canzone per un’amica”, che diceva:

“Lunga e dritta correva la strada
L’auto veloce correva
La dolce estate era già cominciata
Vicino a lui sorrideva
Vicino a lui sorrideva

Forte la mano teneva il volante
Forte il motore cantava
Non lo sapevi che c’era la morte
Quel giorno che ti aspettava
Quel giorno che ti aspettava

Non lo sapevi, ma cosa hai provato
Quando la strada è impazzita
Quando la macchina è uscita di lato
E sopra un’altra è finita
E sopra un’altra è finita

Non lo sapevi, ma cosa hai sentito
Quando lo schianto ti ha uccisa
Quando anche il cielo di sopra è crollato
Quando la vita è fuggita
Quando la vita è fuggita

Vorrei sapere a che cosa è servito
Vivere, amare, soffrire
Spendere tutti i tuoi giorni passati
Se presto hai dovuto partire
Se presto hai dovuto partire

Voglio però ricordarti com’eri
Pensare che ancora vivi
Voglio pensare che ancora mi ascolti
Che come allora sorridi
Che come allora sorridi”

E una piccola speranza si erge dolce: è quella che ti dice che tuo papà, in quell’ultima intensa ora di vita assieme, sia stato felice davvero, col cuore a mille, circondato dalla sua meravigliosa famiglia, abbracciato dalla sua amata donna, accarezzato dal vento fresco e sano di montagna, con quel sorriso impresso nel volto, poco prima di perdere per sempre la strada.

Lui lì era felice, perché non c’è nulla che conti di più del tempo donato da qualcuno che ti ama più di se stesso, che ti permette di vivere appieno, ancora una volta, e di farti volare di emozioni come quando eri poco più di adolescente, con tutta la vita davanti da afferrare, da gustare e da sbranare.

La vita è un continuo atto di separazione– si afferma nel grandioso film “Lost in translation” di Sofia Coppola, e bisogna abituarsi all’idea che così sarà sempre, senza permesso, senza avviso, senza gentilezza.

Ma forse è vero che quella vita vissuta assieme è stata assaporata fino alle ossa, e che neanche nell’atto estremo e violento della separazione, in un minuscolo, traumatico attimo, forse, ha smesso di valerne la pena.

E allora, come allora, sorridi.

E non smetterai mai di far rumore.

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