Vinicunca, ovvero La Montagna dei sette colori, di un arcobaleno di striature e di sfacettature senza eguali nel mondo, si espande nella cordigliera delle Ande, all’interno del Perù.
Vinicunca è rimasta a lungo nascosta sotto uno spesso strato di ghiaccio, che una volta sciolto, ha fatto emergere un mondo nuovo.
La strada per arrivare è già tortuosa e in macchina sembra essere un miracolo il fatto di non cascare giù dal precipizio di stradine scoscese e ripide.
La terra si fa sempre più rossa e si giunge ad un’altitudine per noi gente di città davvero spiazzante: siamo al livello di 5.200 metri sopra il livello del mare, praticamente una quota quasi impensabile.
Il fatto che oggi gli strati siano in strisce verticali si può spiegare con la tettonica delle placche: la collisione fra la placca di Nazca e la placca sudamericana ha spinto la crosta terrestre verso l’alto, generando la catena montuosa delle Ande e facendo innalzare questa particolare porzione del territorio.
Non stupisce che Vinicunca sia stata inserita dal National Geographic tra i 100 luoghi da visitare almeno una volta nella vita, in quanto l’unicità di questo posto non risiede soltanto nella bellezza mozzafiato del paesaggio, ma anche nel suo inestimabile valore geologico naturalistico.
Eppure, come per tutti miei momenti clou e le avventure della vita, è il tragitto più che l’arrivo a rappresentare il vero e proprio Viaggio nel viaggio.
La salita non è ripida e neanche così faticosa, se non fosse che la tachicardia e la mancanza di fiato causate dall’altitudine si fanno pesanti: ad ogni otto passi circa l’aria diminusce e camminare diventa impresa assai impegnativa.
Ad ogni lato della stradina sterrata di montagna (che lascia spazio a una visione di vette innevate e dai colori sempre diversi), si appostano uomini con cavalli da monta che cercano di convincerti a farti trasportare da loro. Nonostante l’estrema fatica avvertita e la mancanza di ossigeno, mi rifiuto di richiedere un cavallo, cosa che reputo anche abbastanza negativa e fastidiosa per gli animali stessi, sfruttati a solo scopo di business.
Ci accompagna una guida giovane e simpatica, Jenny, che si rivela di fondamentale importanza quando all’ennesimo nostro fermo per prendere 4 boccate d’aria, ci sostiene invitandoci ad inalare uno spray naturale alla muña, erba medicinale utilizzata per aprire le narici e a contrastare il mal di montagna.
Una volta giunti alla vetta, dopo un ultimo pendio scosceso, l’appagamento è massimo. Quasi perdiamo i sensi ma ci sentiamo euforici (complici le foglie di coca che ci siamo masticati durante tutto il cammino).
Il paesaggio che si apre tutto attorno è indescrivibile e il venticello gelato dei 5mila metri ci squote ogni atomo del nostro organismo.
E’ arrivato il momento tanto aspettato: Jenny- grande fautrice di rituali sciamanici naturalistici- ci conduce in una zona remota della vetta Vinicunca, isolata e di spalle rispetto al mucchio di visitatori che pian piano iniziano a raggiungerci.
Qui, cercando di non cascare nel burrone al di sotto, ci arrampichiamo spavaldi verso il punto dove ci appresteremo a creare il nostro ‘nido’ magico per il rito spirituale nei confronti della Pachamama.
Durante la strada, infatti, Jenny ci invita a ringraziare costantemente la Madre Terra per aiutarci nel tollerare il viaggio impervio verso la vetta: ci insegna a gettare dell’acqua della nostra borraccia nei confronti del suolo, per far sì che prima di noi si idratasse lo stesso.
Sono piccole attenzioni che con la permanenza in Perù e Bolivia ho iniziato a far mie: la grandissima devozione che i locali nativi hanno nei riguardi della Madre Terra è davvero stimabile e non smette di stupirci.
Quindi, ci uniamo in cerchio, noi gruppo di fedeli amici e la guida, in direzione di quello che è stato optato essere il punto panoramico più lontano da occhi indiscreti: Jenny scava una piccola buca e ci dice di lasciare come offerta quel che ci pare opportuno, da monetine a foglie di coca, da bevande a caramelle.
Dopodichè, con estrema dedizione, Jenny richiude la buca e ci invita ad appoggiare la nostra mano sul suolo tenendoci stretti gli uni verso gli altri.
La sensazione di gratitudine e di condivisione è davvero molto forte: un attimo di poesia e di meraviglia che non scorderò mai.
Ancor di più perchè, un momento dopo del nostro rituale di gruppo, nel cielo blu turchese che ci circonda, due meravigliose aquile bianche e nere dal mantello lucido e di una bellezza inaudita si avvistano in cima- iniziando a volteggiarci attorno- volando libere e altissime e sprigionando una spavalderia elegante come solo la Natura selvaggia sa esprimere.
Jenny ci riferisce stupita che avvistare due aquile in volo in quel luogo non è così comune e che probabilmente trattasi di un segnale dal cielo: il nostro rito alla Pachamama è stato accolto.
Come per ogni complicata avventura, l’arrivo in cima è stato provante e impervido, ma di contro l’anima ringrazia per tanto audace e sfrontato splendore.
Perchè alla fin fine sì, il nutrimento più saggio che si possa dare ai nostri traguardi affinchè brillino e siano ancora più lucenti è dato da sfrontataggine mista a insano folle coraggio.
E da lassù, di rientro verso la valle, i colori dell’arcobaleno si fanno ancora più accesi e pittoreschi. Anche noi ci sentiamo investiti da una nuova contagiosa vitalità.
D’altronde è proprio vero che “Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono.”
Mi ricorderò che mentre stavamo per iniziare la nostra avventura verso il tanto rispettato e noto Machu Picchu, una delle Sette Meraviglie della modernità oltre che terzo sito archeologico più grande al mondo, continuavo ad ascoltare il brano musicale ”Si te vas’‘ di Extremoduro, rimbombandomi forte in testa la frase:
“Y si juega la vida siempre en causas perdidas”.
E sorriderò al pensiero che sì, certi testi sembrano proprio calzare a pennello: quante volte mi è sembrato di giocarmi la vita in cause assurde, difficili e probabilmente perse in partenza. Ma il percorso, in fondo, cosa non sarebbe senza quella certa dose di adrenalina pura, la stessa che fatichi a comprendere ma che rende ancora più incredibile e indimenticabile il viaggio?
Ecco che il giorno 19 agosto- già stanchi e stravolti da più di metà vagabondaggio peruviano-boliviano alle spalle- arriviamo finalmente ad Aguas Calientes (anche detta Machu Picchu Pueblo) da Ollantaytambo (provincia di Cuzco) mediante un trenino bellissimo e super accogliente: il Peru Rail.
Rivestito di legno e dotato di vetrate enormi, il treno ci scorta per due orette e mezze scivolate velocemente (ormai abituati a una media di otto ore al giorno di spostamenti tremendi fra bus e jeep) tra una risata, un intrattenimento (due ragazzi vestiti da inca improvvisano una scenetta drammatica con un pathos meritevole dei più grandi spettacoli teatrali), una dormitina e l’osservazione del mondo esterno-dal contesto paesaggistico spettacolare- sognando ad occhi aperti la tanto attesa venuta al grandioso sito inca.
Il paesaggio attorno a noi somiglia a quello di una favola: dal treno si colgono acque nitide del corso del fiume (lo stesso affluente che finirà nel Rio delle Amazzoni), verdi piante, colori sempre nuovi e ricchi di sfumature, vegetazioni pluviali tipiche dell’Amazzonia, la cui imponenza si avverte ormai vicinissima.
L’umidità è forte e lo si percepisce dalla nostra pelle che si fa più appiccicosa.
Arrivati ad Aguas Calientes passiamo una serata che è a dir poco surreale: decidiamo di comune accordo di percorrere il trekking verso la scalata al Machu di notte (con orario di entrata al sito alle sei del mattino per evitare folle), in quanto la durata del percorso sembra essere dall’ora e mezza alle due tonde tonde, tempo necessario per la salita senza incorrere in troppa gente. In tutto ciò, la cosa scandalosa è che nessuno di quelli che incontriamo ci rassicura: c’è chi sostiene che il percorso sia lungo e ripido, chi afferma che fino alle 5 del mattino la strada non si possa percorrere a causa di un ponte chiuso al pubblico, chi boccia i bastoncini da trekking, chi dice che invece si possono portare con sè.
La notte sembra quella di zombieland, il chè contribuisce a rendere l’attesa delle poche ore notturne da dormire (giusto 4) ancora più surreale e inquietante. Dall’ansia e dall’agitazione frenetica, difatti, dormiamo pochissimo.
Alle ore 4 del mattino lasciamo l’hotel, non prima di esserci bevuti un bel the di mate de coca (ormai fido alleato) e- pieni di sonno e di irrefrenabile impazienza- sgaiattoliamo via, verso strade inesplorate.
La direzione verso il trekking prevede un sentierino lungo il fiume, dove iniziano ad avvertirsi vivaci i rumori di acqua corrente e di selva: dopo venti minuti di passeggiata nel buio più oscuro (iniziamo ad accendere le torce che avevamo prontamente ancorato nello zaino), si avvicina solo un cane che ci scorta fino al famoso ponte ‘sparti acque’.
L’inquietudine si fa predominante perchè devo ammettere che nell’oscurità il profilo della montagna dal basso alla solo tipieda luce delle stelle trasmette un misto di rispetto e paura, seppur il fascino dei suoi orizzonti lontani sia decisamente molto attraente.
In quel breve tratto completamente buio i timori e le domande si fanno fitti: ”e se ci fossero degli orsi, o degli animali selvatici pronti ad attaccarci?” ”e se ci fosse un criminale che si aggira in cerca di vittime?” ‘‘E come mai non c’è anima viva oltre o noi?’‘- questo brusio segue farfugliandomi nella testa.
Finalmente giunti davanti al ponte che scopriamo venga aperto dalle 5 del mattino con un preciso controllo passaporti, scorgiamo uno ad uno l’arrivo spavaldo di altre persone imbacuccate con torce e racchette da passeggio, esattamente come noi.
Con un grande sospiro di sollievo, forti della massa di una quindicina di persone oltre a noi, ci convinciamo a intraprendere la salita ripida che ci divide dalla vetta del trasognato Machu Pichu.
Devo ammettere che la sensazione di esaltazione mista a terrore che mi ha pervasa dal momento dei primi passi nella notte del cammino non la scorderò mai. Raramente mi sono sentita più viva e più elettricizzata nello stesso identico istante. Ed è proprio quando ti perdi, quando non capisci dove vogliano andare i tuoi sensi, quando una vocina interiore ti sembra suggerire di proseguire, anche se razionalmente vorresti far tutt’altro, che avviene una sorta di piccolo miracolo: l’istinto ti scorta in direzioni e in situazioni nuove, senza chiedere minimo permesso, e sembra sapere improvvisamente quale sia la cosa giusta da fare. Non importa se la stanchezza ti frena, se la paura ti debilita, se l’altitudine ti stronca: dentro di te percepisci la convinzione che la sola via possibile sia quella davanti a te, che ti esorta ad andare, a buttarti oltre ogni minimo tentennamento.
Non c’è più tempo per guardarsi indietro, e forse è questo quello che mi piace di più di quel minimo breve ma dilatato istante.
La salita è faticosa, si caratterizza basicamente per gradinate alte e ripide: i bastoncini da trekking mi vengono in soccorso e mi rendo conto sian stati di fondamentale importanza. Complice il fatto che non avessimo fatto colazione, l’energia scarseggia.
Ma il pendio è troppo elevato per arrendersi e la speranza implode dentro il mio cuore ballerino che già sobbalzava tra una tachicardia provocata dall’altitudine e l’altra causata da pura adrenalina.
Pian piano, tra una hoja de coca e una barretta di cereali, fra un sospiro e un sorso d’acqua meccanico, fra un grido compiaciuto, una risata e una spossatezza collettiva, il livello della terra sottostante si fa lontano. Davanti a noi, solo il rumore sordo e pesante delle fitte vegetazioni Amazzoniche che si aggroviglia al nostro respiro, quasi a volerci donare quel poco di ossigeno che basti per non cedere.
Due cani si bloccano davanti a noi, ringhiando e litigando, non curanti della folla che stanno causando al di sotto: quando i due si spostano, riesco a percepire il profilo della vetta del complesso del Machu Picchu in tutta la sua imponente struttura: sudata fradicia (l’umidità della vicina Amazzonia è molto forte e le gambe dalla fatica sembrano dei fuochi accesi) sorrido e mi sembra di commuovermi di fronte a tanta insana folle poesia.
L’imbrunire dell’alba arriva timida a illuminare di un rosso tenue il contorno delle vette e della folta vegetazione verde, dondando un contrasto di sfumature di colori e di emozioni inspiegabili all’occhio umano, che è stanco per riflettere ma sempre più pieno di magnificenza.
Quel profilo montuoso tanto temuto ed agognato nella notte oscura, che designava sagome appannate e senza contorno nitido nel blu della notte Sudamericana, una volta illuminato dalle primissime luci dell’alba diventa complice, amico, compagno fiducioso e alleato portatore sano di continuo sbalordimento. E gli occhi, finalmente, brillano d’immenso.
Profilo del Machu Picchu alle ore 5.45 AM
Profilo del Machu Picchu alle ore 5.50 AM
Il profilo della montagna è splendido e la foresta lascia spazio all’immaginazione: non vediamo l’ora di attraversare la vallata del Machu Picchu, di scoprire quel che si erge dalla parte opposta della cima.
Non sembra vero ma, dopo un’oretta e mezza di scalinate ripidissime e di grande impegno, siamo arrivati puntuali alla base di arrivo del sito del Machu Picchu: la soddisfazione è grandissima. Mi cambio in bagno perchè la maglietta che avevo è diventata un panno inzuppato di sudore e fatica.
Solo quando ci si trova davanti a Machu Picchu ci si rende conto della sua grandezza, della sua bellezza e del suo fascino; improvvisamente ti immergi in quelle sensazioni palpabili che percorrendo la salita potevi solo minimamente percepire.
La vista della foresta che si apre sempre più di fronte alla vista delle costruzioni inca è impressionante ed è talmente perfetta da sembrare finta.
Ci racconta la guida che il primo a scoprire e rivelare al mondo l’esistenza di Machu Picchu fu l’archeologo americano Hiram Bingham nel 1911.
In realtà Bingham stava cercando la città perduta di Vilcabamba, ultima roccaforte inca contro l’invasione spagnola, rappresentata in realtà dalle rovine di Espiritu Pampa.
Machu Picchu, edificata da Pachacutec intorno al 1440, era sicuramente un centro cerimoniale molto importante, forse un nodo commerciale, ma la realtà è che le ipotesi su questo luogo non sono ancora state confermate, mere supposizioni.
Fra queste, l’ipotesi che fosse una residenza estiva per l’imperatore inca e la sua corte, oppure un Santuario dedicato alle sacre Vergini del Sole.
Quel che è certo è che l’intera costruzione sia stata legata allo studio ossequioso e puntuale delle stelle (proprio sopra al sito si ergono le Pleiadi), del ciclo del Sole e della Luna.
Come sappiamo, infatti, gli antichi incas erano un popolo di ingegnosi astronomi, matematici e architetti prestigiosi: ci colpisce l’estrema precisione con cui i singoli massi siano stati accavallati con incastri perfetti e come certe finestre siano state costruite nel punto esatto di allineamento con l’ascesa del Sole alle sei o con la sua discesa al tramonto.
Un’immensa vallata perfettamente stabile e antisismica (incredibile se si pensa all’epoca della sua costituzione!) è ancora impeccabilmente intatta e ben conservata.
Inoltre, la disposizione di un edificio in particolare denota un’approfondita conoscenza dei movimenti del sole: si tratta proprio del grandioso Tempio del Sole.
Nel Tempio del Sole ci sono due finestre: una rivolta direttamente verso l’Inti Punku, che quindi accoglie la prima luce del solstizio, e una invece rivolta verso il punto in cui il sole sorge nel solstizio d’inverno.
Per concezione panteistica degli antichi inca, infatti, tutte le cose che li circondavano erano esseri divini, in particolare il Sole (Inti), marito della terra (Pachamama), la luna (Killa), le montagne (Apus).
Il Tempio delle 3 finestre, con le sue finestre su livelli differenti, è volto a rappresentare i vari livelli di vita della cosmologia inca:
il condor – uccello sacro capace di comunicare col mondo degli dei e con il futuro;
il puma – simbolo di forza, saggezza e intelligenza –rappresentante il livello delle cose visibili e del nostro mondo;
il serpente – l’infinito, il passato e il mondo dei morti.
Queste creature sono la rappresentazione del mondo sopra (gli dei), del mondo terreno e del mondo sotto (i morti): la cosiddetta trilogia inca, ancora oggi rappresentata in varie forme in Perù.
Gli incas credevano che gli uomini dovessero viaggiare dal mondo dei morti al mondo dei vivi per potersi infine elevare al mondo degli dei.
Non soprende ritrovare i simboli dei tre animali in tutta la vallata Sagrada attorno a Cuzco e poi riprodotti in qualsivoglia souvenir.
Ci sono luoghi che sono colmi di storia, di energia concentrata, di fascino e magia. Machu Picchu senza alcun dubbio è uno di questi.
Non c’è un centimetro di terra che non ti regali stupore e incanto.
La Natura sovrasta ogni pensiero: la Natura che i peruviani e i boliviani abbiamo scoperto amare immensamente, fonte di offerta costante di acqua, cibo, rituali dedicati, canti e danze tipici. Ed è specialmente nella vallata sacra del Machu Picchu che il legame del popolo con la terra si fa prepotente: l’ordine si intreccia al caos organizzato di Pachamama, la Signora Madre Terra.
Ed è proprio verso la Pachamama che noi compagni offriamo a fine percorso un mini rito benefico che consiste nel lasciare andare tre foglie selezionate di coca imprinte di desideri e di impronte delle dita e di farle svolazzare all’interno dell’antico tempio sacro.
Un gesto semplice quanto potente, che mi riconnette immediatamente alla primordiale e selvaggia energia cosmica.
Impossibile spiegare con esattezza le sensazioni provate di fronte all’immersione del mio corpo in quel pezzo di Terra così tanto fantasticata: rimani esterrefatto, senza parole, in uno stato di perenne apnea.
Quel giorno non c’era una nuvola, non una minima foschia, non un errore: ricordo di essere rimasta ipnotizzata a lungo, prima di intraprendere il cammino del rientro.
Questa volta volgevo stanca, sonnolenta, ma con gli occhi e l’anima pieni di immensa gratitudine e bellezza.
E in quel preciso momento ho riletto una poesia del poeta Antonio Machado che scoprì anni fa durante il mio soggiorno in Spagna e che diceva:
“Colpo su colpo, passo dopo passo,
Viandante, il sentiro non c’è,
il sentiero si fa camminando.
Camminando, si fa il sentiero e se ti guarderai alle spalle
tutto ciò che vedrai saranno le orme dei passi che un giorno
i tuoi piedi ripercorrerando.
Viandante, il sentiero non c’è,
il sentiero si fa camminado.”
Ora quelle parole mi sembrano arricchirsi di nuovi potenti significati.
..E quindi continuo ad avanzare, fra un pezzo di terra e un angolo di cielo e promettendomi che sarò stanca solo un giorno, chissà quando, sperando più tardi possibile.. ma intanto non ci voglio pensare, c’è ancora troppo da scoprire.
Oggi mi godo il presente e mi lascio trasportare vagando con i sensi accesi e impegnandomi a non cessare mai l’esplorazione, bensì a seguire meravigliandomi di ogni minimo dettaglio senza limiti nè confini.
Del resto, c’è ancora tanto da camminare, perchè sì, il sentiero si fa proprio e solo camminando.
Vorrei trovare i modi giusti per affidare al presente quel che ne resta della parola ‘Addio’.
Che poi “Addio” porta con sé un significato molto poetico: modo di salutare separandosi, bene augurando a chi resta o a chi parte, intendendo ‘ti raccomando a Dio’.
Bella questa cosa dell’affidare una persona o un posto o un animale a Dio, quasi come a voler augurare il meglio di un progetto, di un percorso, di un cerchio familiare che però risulta concluso, esaurito, senza prospettiva tangibile.
Si dice che, talvolta, certe relazioni, una volta terminato il loro ruolo vitale, sia meglio lasciarle andare. Che si conclude un ciclo che non avrebbe modo di trovare altro inizio se non portando alle spalle quel che è stato.
Il problema è che non sono brava con gli addii. Mi ci è voluto tanto per realizzare che questa volta l’addio è partito da me, non perchè non sentissi più sentimento (anzi), ma perchè a volte certe strade si dividono, si interrompono nella boscaglia mancanti di punti di incontro importanti, quelli che ti fanno dire ‘‘Ok, fuori c’è una tempesta ma noi siamo saldi’‘. Quando si ama, dover lasciare qualcuno che ci ha donato amore sano e tenerezza suona come una doccia gelata, un colpo di pistola, una ferita all’anima che vorremmo non dover trafiiggere mai.
Eppure suppongo che certe scelte bisogna compierle prima di venire noi stessi travolti da un percorso che si rischia di odiare solo perchè le parole ‘comfort’ e ‘abitudine’ ci avrebbero rassicurati cento volte di più.
Procastinare: quanto è facile e comodo continuare ad andare avanti.
Ed è li che poi ci pensa una sveglia, un timer, qualcosa di fastidioso e di assillante che ci dice “ehi svegliati, il mondo va avanti, devi agire“. Così prendi quel poco di coraggio che hai e ti butti nell’ignoto, affrontando certe decisioni che mai avresti voluto prendere ma che forse si rivelano le uniche necessarie.
E poi realizzi con fatica che la mancanza non la scalfisci con impegni, persone, nuove esperienze: no, la mancanza devi respirarla, attraversarla, afferrarla, e solo con il vuoto più grigio ti sarà possibile costruire mattoncino per mattoncino un edificio nuovo.
Non ero convinta che fossi appagata con il termine ‘Addio’.
Così ho letto a fondo il significato di “Arrivederci“: Espressione di saluto fra persone che si separano con la certezza o speranza di rivedersi; talora anche come augurio a chi si allontana per molto tempo. Ma ancor di più dovremmo sostituire l’Arrivederci con un “A rivederci presto”, con la promessa che quel che è stato potrebbe essere trasformato in una nuova veste, in una insospetatta forma senza confini.
Sì, ho deciso che questo termine mi rispecchia di più: mi piace pensare e credo sia confortante che alcuni importanti percorsi nella vita non sono solo o bianchi o neri, ma costituiti da un’infinità di sfumature tutte da riscoprire, che si possono conoscere e amare in modo sempre diverso. Che alla fine per fare un passo avanti indietreggiare è opportuno per prendere la mira e camminare ancora più dritti.
Sono sempre stata la ragazza delle scelte nette e mi infervoravo nel discutere con chi mi diceva che in realtà il bello di volersi bene è che certi rapporti si conservino lo stesso, se solo lo si desidera. E ora io lo so: per certi tragitti vorrei sostituire il ”Rivederci presto” all’Addio.
Dopotutto non c’è nulla di più immutabile del cambiamento, e io voglio pensare che certe strade, se è destino, si incroceranno ancora. Magari in un modo rinnovato, maturo, distinto: probabilmente più bello.
D’altra parte noi tutti siamo fatti di infiniti miliardi di atomi che si fondono e si trasformano ogni minuto della nostra vita, mutando in continuazione di sembianze sempre nuove e non essendo mai più i medesimi del passato. Incredibile, vero?
Poche certezze mi rimangono della Vita ma in fondo sono sempre stata e sempre sarò un’instancabile Romantica.
Quindi A rivederci Amore.
Peccato, eravamo una così bella invenzione. Hanno amputato le tue cosce dai miei fianchi. Per quel che mi riguarda non sono che dei chirurghi. Tutti quanti. Ci hanno smontati l’uno dall’altra. Per quel che mi riguarda non sono che degli ingegneri. Tutti quanti. Peccato. Eravamo una così bella invenzione. Un aeroplano fatto di un uomo e una donna, le ali e tutto il resto. Per un po’ ci sollevammo da terra, per un attimo riuscimmo perfino a volare.
Vulcanica, selvaggia, ventosa, soleggiata, libera, gioiosa e sensuale.
L’isola di Fuerteventura in estrema sintesi può definirsi con queste caratteristiche.
Ma è la piccola Isola vulcanica Los Lobos a incantare ancor di più gli occhi e le menti: una mini isola deserta divenuta riserva naturale dal 1982.
Nonostante la sua superficie ridotta, è un vero concentrato di specie protette.
Si tratta di uno dei territori meglio conservati delle Isole Canarie soprattutto perché è un’isola disabitata e grazie all’ingresso controllato dei turisti.
Qui è la Natura a fare da protagonista assoluta dell’intera vita nell’Isola: silenzio, mare cristallino, onde che si infrangono sul terreno di origine vulcanica, strade assolate e saline sparse qua e là.
Passeggio distinta facendomi conquistare dalla semplicità e dalla straordinaria varietà paesaggistica di questo territorio, scorgendo terre lunari, deserti di dune bianche, rocce scure vulcaniche fino a spiagge chiare contorniate da mare limpido, azzurro e freddo.
Vago spensierata verso le grandi pale eoliche che contraddistinguono parte del brullo terreno mentre una sfilza di van curiosi sopraggiunge all’orizzonte in cerca del prossimo spot per cogliere l’onda perfetta dove un gruppo di surfisti accorrerà entusiasta. Eccomi finalmente attorniata dal mio elemento più caro: la Natura, in tutte le sue numerose, misteriose e spaventose forme. E qui, in un piccolo spazio racchiuso fra rocce ed acque saline, mi riparo momentaneamente dal vento e chiudo gli occhi per meditare e sentirmi grata, estremamente felice per sentirmi Viva in quel turbinio di mondo selvaggio, dolce e inquieto, a tratti ancora vergine e incontaminato.
Qui, in quel preciso istante, respiro il tempo sospeso e non mi sento più persa. Serena, mi commuovo in un pianto liberatorio. Sono Viva, tutto attorno è vivo, tutto intorno è in costante cambiamento. Cosa c’è di più magico?
Allora afferro le cuffiette per ascoltare la mia solita musica e mi soffermo casualmente su di un brano spagnolo che sentii anni fa durante la mia permanenza a Madrid: si intitola ”Que se joda el viento” della band rock Marea.
Mi fisso sulle parole e sull’incalzante ritmo del brano che si fa sempre più duro e comprendo che in realtà il testo invita a rincorrere un amore vero, passionale e reale, di lasciare perdere così i timori, i cliché e le restrizioni sociali che inquinano i rapporti e le persone. ”Che il vento se ne freghi di te e di quel che vuole”, ”che ci lasci il mare che altro non vuole che intortarci a suo capriccio e a suo sfizio, ma tu bagnati con i miei occhi lucidi”.
Uno slogan alla perdizione, all’errore, allo sbaglio che altro non vuol dire che amare per davvero e senza filtri o finzioni.
”Fregatene di quel che la gente può pensare e indossa quel tuo vestito attillato”; nuota nel mare dei sentimenti senza sentirti in colpa, fatti cullare dal caos delle emozioni senza sosta, libera i tuoi desideri profondi e non giudicarti mai.
Faccio mio anche un pezzo di un libro da poco letto e che è stato illuminante e che mi richiama all’attenzione proprio questo concetto- ”Le vostre zone erronee’‘ di Wayne W. Dyer:
“Non tenere conto del presente è quasi una malattia, nella nostra cultura, e noi veniamo continuamente condizionati a sacrificarlo al futuro. Con questo sistema, in conclusione, non solo evitiamo, adesso, ogni godimento, ma la facciamo finita per sempre con la felicità.”
Che alla fine si sa, solo gli insicuri amano la sicurezza. Tutto il resto è inquieto e limpido come l’Oceano Atlantico che si infrange sulle rocce nere e spigolose, senza sosta, senza ragione, senza argini, senza pietà.
L’arte di Roberto Ferri incanta, stravolge, ammutolisce.
Impossibile non rimanere esterrefatti dalla potenza e dalla grazia dei corpi ritratti da Ferri. Sembra di trovarsi di fronte a delle fotografie, dove il contrasto fra buio e luce conquista i nostri sguardi: un susseguirsi di corpi eleganti e moderni delicatamente delineati in colpi di chiaroscuro che tanto ci ricorda l’influenza dei fiamminghi o la maestosa abilità di dinamismo del Caravaggio.
Immagini ricche di erotismo, di visi angelici e di presenze demoniache: scorrere con lo sguardo i ritratti di Ferri vuol dire fare i conti con il lato umano di ognuno di noi, chiamato a decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, se cedere agli istinti terreni che ci travolgono, o se aspirare al cielo senza macchia.
Ma è nell’eterna lotta fra bene e male, fra luce e ombra, fra chiaro e scuro, che tutto si compie e niente soccombe: l’infinito scontro fra titani, fra i lati più celati dell’animo umano si fanno finalmente corporali, materia pura, essenza fisica nuda e cruda. In una guerra continua senza vinti o vincitori.
Osservando le immagini forti e senza tempo di Roberto Ferri, sovvengono alla mente la poeticità e l’intensità delle parole di Charles Pierre Baudelaire in “Les Fleurs du mal“:
“Che tu venga dal cielo o dall’inferno, cosa importa, o Bellezza! Mostro enorme, ingenuo, tremendo! Se i tuoi occhi, il tuo piede, il tuo sorriso mi schiudono ancora ignorato un Infinito che amo?
Da Satana o da Dio, cosa importa? Angelo o Sirena, cosa importa se tu – fata dagli occhi di velluto, ritmo, luce, profumo, o mia sola regina!- mi rendi meno ripugnante l’universo, meno grevi gli istanti?”
“Assai più che la Vita
è la Morte a tenerci sovente con lacci sottili.”
“O tu, che come un coltello sei penetrata nel mio cuore gemente: o tu, che come un branco di demoni, venisti, folle e ornatissima, a fare del mio spirito umiliato il tuo letto e il tuo regno – infame cui sono legato come il forzato alla catena, come il giocatore testardo al gioco, come l’ubbriaco alla bottiglia, come i vermi alla carogna – maledetta, sii tu maledetta!”
L’arte di Ferri ci permette di viaggiare dal pericolo delle tentazioni alle necessarie espiazioni ultraterrene, alla costante ricerca del vero e dell’angelico che- unico e solo- ci potrà salvare.
Ma nel mentre, quanta bellezza in questa stessa Vita.
E d’altra parte, come diceva Anthony Burgess, l’arte deve essere pericolosa, perché allorché cessi di essere pericolosa, allora non la si vorrà più.
/Flut·tu·à·re/ : Essere mosso dal vento, ondeggiare.
Avete presente quella sensazione magica che ti piglia quando da bambino/a andavate sulle giostre, tra un misto di paura, adrenalina ed esaltazione?
Immaginate ora di fluttuare, ondeggiare, di volare letteralmente nel cielo più nero e di attendere l’alba assieme ad una compagnia speciale di persone. Metteteci anche vertigini ed una buona dose di follia e stanchezza.
La classica levataccia che ti fa dire “Ma chi me lo ha fatto fare?” appena alzati dal letto, ma che si trasforma in un ”wow, ne è proprio valsa la pena!” con occhi a cuore e luce che vi illumina di vibrazioni positive.
Vedere il sole sorgere dall’alto poi, non ha prezzo.
Raramente mi è capitato di sentirmi così slegata da qualcosa e nello stesso contempo connessa al mio intorno. E’ come se qualcuno mi avesse staccato per un attimo la testa e che la stessa si ritrovasse a vivere in un universo parallelo senza la pesantezza dei pensieri.
Ed è così che ho realizzato che lasciar andare le cose è molto più facile e liberatorio a farsi che a immaginarsi.
Respirare, far sì che gli eventi e il mondo fluiscano nel tempo e nello spazio, senza poterli controllare. Quante volte si fatica a lasciare correre le situazioni, a staccarsi da persone o dal passato? Ecco, quando ci si immerge nel vuoto d’aria e ci si lascia trasportare inermi, ci si sente così minuscoli, così piccoli, da divenire improvvisamente davvero liberi e presenti. Presenti nel contesto, nel qui ed ora. Lontano da tutto il buio e dalle tristezze del mondo. Lo definirei “Effetto Catartico”.
La preparazione al volo poi è un vero e proprio spettacolo nel teatro: ci si stringe insieme per osservare gli addetti ai lavori gonfiare la mongolfiera con una fiamma che sprigiona un calore ed un rumore che squarciano il silenzio della notte desertica; si attende con eccitazione la preparazione del viaggio; si scavalca letteralmente il cesto di vimini che compone la base della mongolfiera; ci si guarda attoniti; si ride, si scherza, si piange dall’emozione, e, dopo qualche lancio di fiamma, ecco che si parte.. nel buio della notte assolata in mezzo a cotanto immenso.
Cappadocia, TurchiaAlba sulla Cappadocia, Turchia
E si va, si sorvola, si ondeggia insieme ad un mare di altre mongolfiere, in una danza di colori e di sfumature che non hanno eguali.
Dopo aver raggiunto una quota massima di 1600 metri da terra (non scherzo), eccoci pronti per fluttuare verso terra: altri giri di fiamma, preparativi per l’atterraggio, e via, ancorati questa volta ad un camioncino che ci accoglie precisamente nel punto giusto, facendoci allegramente sballottare avanti e indietro sopra la sua matassa meccanica.
Un vero e proprio viaggio nel viaggio.
Vista dei cammini delle Fate della Cappadocia- GoremeFaccia addormentata ma piena di luce negli occhiQuasi alba e primi luci a GoremeIn volo sulla CappadociaSi vola!
Pochi giorni prima del viaggio in Turchia avevo letto da qualche parte un murales che diceva :
“Il coraggio è fatto di Paura”.
E in effetti è proprio così, quante splendide avventure sono alimentate da quella micidiale folle paura, proprio la stessa che malediciamo ma che rende tutto più intenso e più memorabile.
Alla fine del volo, i turchi del posto ci accolgono con uno spumante rosso made in Cappadocia. E si brinda ad una nuova luna, una nuova meravigliosa Vita.
Banchetto con spumante allestito per l’arrivo a terraCin Cin!
E quindi mi sono ripromessa che quando sarò fisicamente a terra, chiusa nelle mura di un ufficio, o probabilmente persa nel traffico inquietante di Milano, ripenserò a quel volo altissimo e al suo fluttuare, e mi farò piccola piccola in attesa di sorvolare sopra ogni problema e sopra ogni ostacolo e son certa anche che nel farlo accennerò un sorrisino che mi farà tornare sospesa nel blu cobalto del cielo turco.
E a voi chiedo: quando è stata l’ultima volta che avete fatto qualcosa per la prima volta?!
Non dimenticate, a volte, dell’importanza di fluttuare e di lasciar correre il flusso imprevedibile della Vita. Chissà quale avventura si nasconderà proprio dietro l’angolo.
Nella costa settentrionale dello Yucatan, affacciato sul Golfo del Messico, Rio Lagartos è un piccolo villaggio di pescatori molto tranquillo dove sembra che il tempo si sia fermato.
E’ qui il mio posto nel mondo: non appena ho intravisto la riva del Rio, così ricca di barchette dalla forma particolarissima e contorniate da sfumature verdi azzurre e lilla dell’acqua tutto attorno, un senso di estrema pace e serenità mi ha avvolta d’un tratto.
E’ proprio vero che esistono posti ricchi di vibrazioni alte e di energie inspiegabili: Il nome Rio Lagartos, letteralmente fiume degli alligatori, è stato esteso anche alla Biosfera circostante, diventata riserva naturale protetta dall’Unesco nel 1979, e la sua origine deriva da un’errata interpretazione dei coloni spagnoli, i quali arrivati sul posto pensarono che la grossa laguna che si trovarono davanti fosse in realtà un fiume e non un’insenatura marina.
Ci sono fenicotteri, mangrovie, a tratti- quasi celati- coccodrilli che si ergono spavaldi. E ancora saline, di un bianco quasi sfavillante e piante di ogni genere.
Ma è al tramonto che quel minuscolo luogo del cuore si dipinge in tutto il suo splendore:
arancio, rosa, porpora, celeste, grigio, viola, blu.. è difficile se non impossibile descrivere con cura lo spettacolo di sfumature di colori e di pennellate delle tinte di cui si veste il cielo. Una meraviglia per gli occhi che sembrano commuoversi di fronte a cotanta bellezza. E in quel momento una brezza di vento leggero mi accarezza il volto, mi secca leggermente gli occhi, che nel frattempo si erano fatti lucidi, e i gabbiani lanciano un fischio per dar inizio alle loro danze.
“Se esiste il Paradiso“-penso- “Esso deve essere molto simile, se non uguale, al tramonto leggero e silenzioso di Rio Lagartos”
Ecco che mi viene in mente quella canzone così intensa e familiare che diceva:
“Y el tiempo se escurrió Y sus ojos se le llenaron de amaneceres Y del mar se enamoró Y su cuerpo se enraizó en el muelle..” (En el Muelle de San Blas- Manà)
E ora, dimmi, dove hai assaporato la tua pace interiore che ti portava a pensare che in quel momento, in quel preciso istante, in quel luogo, tu fossi esattamente dove avresti dovuto essere?
Io, in fondo, lo so e l’ho saputo appena i miei piedi sono atterrati in quella landa magica e salmastra, dalla semplicità quasi dimenticata.
Una piccola grande Poesia che porterò sempre con me.
Sono i giorni cupi, che ti scuotono come in un brutto incubo senza fine, come in una bolla d’aria che sta per scoppiare e che ti lascia senza ossigeno, come una fitta alla pancia che ti squarcia dentro, che risuonano di una violenza inaudita contro la quale non esistono antidoti nè soluzioni.
Soprattutto perché quel giorno maledetto è arrivato e ti sembra di averlo causato tu stessa, desiderando all’infinito di regalare un week end da favola ai tuoi genitori, finalmente riuniti tutti assieme, nell’aria di montagna e nella spensieratezza della neve, pensando a tutto fuorché a dover maledire ogni cosa.
Si sa, ci sono persone brave a regalare doni materiali, generose e attente ad ogni dettaglio, e poi ci sono quelle brave a regalare esperienze di vita, piccole fughe dal quotidiano, avventure che valgano la pena di essere consumate. Ecco, io mi rispecchio nell’ultima categoria, perché la cosa che mi sento di apprezzare di più è il tempo dedicato a qualcuno che amiamo.
Poi però il vuoto assoluto, il rumore sordo della tragedia, l’impotenza che si fa reale: quel week end tanto desiderato si trasforma in un dramma, in una maledetta corsa contro il tempo che si dilata come in uno scoppio di bomba.
Ogni tua sicurezza si fa nulla, ogni tua parola si fa silenzio, ogni battito di ciglia si fa pesante tanto da non trovare neanche la forza per piangere.
Così, nella desolazione che non lascia spazio a niente, niente di saggio, ti sovviene nella mente la canzone di Guccini, ”Canzone per un’amica”, che diceva:
“Lunga e dritta correva la strada L’auto veloce correva La dolce estate era già cominciata Vicino a lui sorrideva Vicino a lui sorrideva
Forte la mano teneva il volante Forte il motore cantava Non lo sapevi che c’era la morte Quel giorno che ti aspettava Quel giorno che ti aspettava
Non lo sapevi, ma cosa hai provato Quando la strada è impazzita Quando la macchina è uscita di lato E sopra un’altra è finita E sopra un’altra è finita
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito Quando lo schianto ti ha uccisa Quando anche il cielo di sopra è crollato Quando la vita è fuggita Quando la vita è fuggita
Vorrei sapere a che cosa è servito Vivere, amare, soffrire Spendere tutti i tuoi giorni passati Se presto hai dovuto partire Se presto hai dovuto partire
Voglio però ricordarti com’eri Pensare che ancora vivi Voglio pensare che ancora mi ascolti Che come allora sorridi Che come allora sorridi”
E una piccola speranza si erge dolce: è quella che ti dice che tuo papà, in quell’ultima intensa ora di vita assieme, sia stato felice davvero, col cuore a mille, circondato dalla sua meravigliosa famiglia, abbracciato dalla sua amata donna, accarezzato dal vento fresco e sano di montagna, con quel sorriso impresso nel volto, poco prima di perdere per sempre la strada.
Lui lì era felice, perché non c’è nulla che conti di più del tempo donato da qualcuno che ti ama più di se stesso, che ti permette di vivere appieno, ancora una volta, e di farti volare di emozioni come quando eri poco più di adolescente, con tutta la vita davanti da afferrare, da gustare e da sbranare.
La vita è un continuo atto di separazione– si afferma nel grandioso film “Lost in translation” di Sofia Coppola, e bisogna abituarsi all’idea che così sarà sempre, senza permesso, senza avviso, senza gentilezza.
Ma forse è vero che quella vita vissuta assieme è stata assaporata fino alle ossa, e che neanche nell’atto estremo e violento della separazione, in un minuscolo, traumatico attimo, forse, ha smesso di valerne la pena.
Iniziare da diversi mesi ormai a fare la volontaria per dei ragazzi diversamente abili mi ha donato grande riconoscenza.
Ebbene, si parla spesso di beneficienza e di condivisione, ma quanto spesso ci è capitato davvero di fermarci e di fare un passo profondo, quello che aiutasse concretamente qualcuno in palese difficoltà?
Mi piace fare il mio in questo piccolo gruppo di ragazzi così speciali perché non sono io ad aiutare, bensì, in un certo senso, sono loro a farmi un bel favore.
Fin dall’inizio mi è stato suggerito di non trattarli come ‘diversi’ né di compatirli, e devo ammettere sia stato un consiglio per niente scontato.
Come dice la mitica Drusilla Foer in un suo monologo, è
bello parlare di ‘’Unicità’’ più che di ‘’Diversità’’.
Ognuno è unico nella sua accezione di esistenza, con le sue
esperienze ed i suoi connotati; diverso da chi, in cosa, per chi?
Restaurerei e reintrodurrei il concetto di originalità e di meraviglia. Solo in questo modo potremo cogliere la bellezza di ogni unicità.
E questi ragazzi sono belli in modo esasperante: loro scherzano, sorridono, si emozionano, si scaldano, si punzecchiano, si ingelosiscono e si prendono sul ridere proprio perché sono talmente unici da sapersi Vivi, vivi per davvero.
E non importa quanta strada dovranno fare per apparire ‘normali’ agli occhi della gente- se con una carrozzina o con qualche impedimento in più- loro brillano di luce propria e sanno piacersi e apprezzarsi proprio per quello che il resto del mondo tenderebbe a oscurare.
E guai a chiamarli diversi, perché finirei per ricredermi assaporando un boccone di pasta al sugo mentre li osservo cenare nel tavolo assieme a me: quella golosità atavica che ripone quel ragazzo nel gustarsi il pane per far la scarpetta è proprio lo stesso che provo anche io. Con tanto di acquolina in bocca e occhietti furbi.
Mi viene da ridere e allora sento che ci comprendiamo con un solo sguardo, ci sorridiamo e manteniamo il segreto tra noi; improvvisamente ogni disabilità sparisce, soppiantata da una manciata di sano affetto e una dose di dolcezza pura.
Che bello comprendersi tra simili.
Quanta straordinaria e vera Bellezza.
Mi viene in mente un detto di Lao Tzu che sofferma:
“Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla”.
Quindi grazie, meravigliose uniche stelline per tutto il bene
che mi avete allegramente ricambiato.
Mi e successo per caso di trovarmi a fianco della mia vecchia Università e con tanta sana curiosità ho deciso di provare a farci un giro. Al di là della difficoltà a entrare tra green pass e controlli, e il constatare, non con un pizzico di delusione, che ci sia una trafila non indifferente nel poter fare un giretto in santa pace (“sono solo una ex studentessa nostalgica” ho detto io), appena entrata mi sono sopravvenute una serie di emozioni così intense da lasciarmi un po’ interdetta. Avete presente quella sensazione che ti piglia quando nel bel mezzo del nulla più totale ti capita di sentire una canzone vecchissima che amavi alla follia e che ti ricordava momenti cari ma che poi non hai più avuto modo di sentire, dimenticando il titolo? Ecco, quella strana sana nostalgia.
Risate, convinzioni, paure, lacrime, piccoli grandi amori, le folli studiate pre esami, le pausa caffè, i pranzi in mille, la difficoltà mista ad esaltazione nel dover trovare un tavolo libero in biblioteca, i professori che amavi e che non ti volevi perdere per nulla al mondo e quelli che invece non potevi proprio sopportare, la corsa alla stampa degli statini, i compagni incredibili divenuti amici solidi negli anni, i chiostri che sapevano di amore e di leggerezza. Quante emozioni, forse troppe tutte assieme per oggi. E’ strano quando il contenitore di un tempo rimane lo stesso, ma tu nel frattempo sei cresciuta e ti senti quasi “di troppo”; eppure eri proprio lì qualche tempo fa ed eri proprio tu, solo che nel mentre è trascorsa una vita. E ti sembra quasi di rivederle tutte quelle facce che ti hanno sostenuta nel momento della laurea, le vedi sparse nei visi nuovi di quei giovani ragazzi che adesso frequentano la tua stessa aula, quella con i muri leggermente rovinati ed increspati, rimasti uguali tali ad allora. Che rara e dolce follia tornare negli stessi luoghi che ti hanno riempita di vita, di illusioni, timori e di “chissà”, da cui aspettavi solo di spiccare il volo inseguendo fra le più belle esperienze che avresti mai potuto compiere da lì a poco. Sarà anche una blanda accozzaglia di chiostri e di mura e di aule, ma quella per me è una piccola grande pietra preziosa che racconta la mia storia e quella di molti altri miei compagni. Compagni che immagino sparsi nel mondo, alla ricerca di risposte, chissà alcuni dove come quando e perché, ma in fondo chissenefrega perché mi basta per un momento- uno soltanto- rivederli lì ancora, con la mia stessa voglia di spaccare il mondo, insieme verso un unico scopo che altro non era che quello di competere contro noi stessi, così intenti a rincorrere speranze, esami e l’oggi per curarci dell’immediato futuro che avremmo scontrato da lì a poco.
“Avevamo ferite che si completavano. Si tratta di qualcosa di cui nemmeno sei conscio quando succede ma, ripensandoci, scegli una persona proprio per qualcosa di imponderabile che ti colpisce” Joan Baetz su Bob Dylan
“Sono più un tipo che scappa, con corpo e anima. E se il corpo non può scappare, che almeno scappi la mia anima. “
“Alla gente sembrano sexy molte cose: ballare, i muscoli, i capelli biondi, l’accento francese… Sai cos’è sexy per me? L’intelligenza. Gli uomini che ti parlano e non puoi evitare di ammirarli, possono essere alti, bassi, belli, brutti… Mi arrapa che mi parlino di cose che non so. “
“Pensiamo che l’amore si dichiari con fiori e cioccolatini, ma puoi dichiarare il tuo amore anche a martellate.
“Nell’amore c’è sempre un orologio che fa tic tac. C’è sempre un conto alla rovescia. Non basta amare qualcuno, devi arrivare in tempo.”
” Si chiama nostalgia, scoprire che alcuni momenti del passato che non avevi mai considerato felici, lo erano. “
“La felicità è un attimo. Il tempo di un respiro. E poi, cadi. Quando hai toccato il cielo, la caduta è micidiale. “
“Pensate mai che potendo ritornare indietro nel tempo forse non si prenderebbero le stesse decisioni? Tutti ci costruiamo una palla di neve con le decisioni sbagliate. Una palla che diventa gigantesca. Come il masso di Indiana Jones e continua inseguirti sul pendio per schiacciarti. “
“Sono come la pianta che cresce sulla nuda roccia: quanto più mi sferza il vento, tanto più affondo le mie radici”
Detto Indiano
Non so se fossi l’unica bambina ad essere stata cresciuta a suon di spazio verde, natura e tende indiane.
Ricordo ancora molto bene quando mi arrivò nel giardino di casa una bellissima e inaspettata tenda Apache. Mi ci nascondevo dentro e mi immergevo tra i suoni delle piante, ascoltando il vento e immaginando un mondo lontano. Era il mio rifugio: nessuno lì dentro avrebbe potuto farmi del male.
Non a caso, crescendo, sono stata affascinata sempre più dalle culture native indiane, specialmente quelle relative alle tribù americane.
Ho da sempre avuto grande ammirazione per quel popolo così osannato e così terribilmente perseguitato. Ne ho fatta mia molta della loro saggezza e filosofia; dal fatto che bisognerebbe indossare le scarpe di qualcuno prima di poterlo giudicare, all’importanza di pregare per gli alberi, all’amore riservato nei confronti di ogni essere animale e naturale, alla necessità di non fare male al tuo vicino e di condividere il più possibile.
Mi sono sempre appassionata al tema dell’ambiente, tanto che non vedevo l’ora di poter fare concretamente qualcosa ed è così che ho iniziato a divenire volontaria per l’organizzazione Sea Shepherd e per varie cause legate alla difesa della Natura.
Poi da poco -dal periodo covid specialmente- mi è tornata alla mente di quando mi nascondevo in quella tenda, di quanto ci stessi bene, di quanta pace mi provocasse. Così, da curiosa viaggiatrice qual sono, ho pensato bene di cercare se esistesse un alloggio estivo che mi desse una parvenza di qualcosa di simile.
Non appena vidi la Casa dell’albero su internet, fu amore a prima vista. “Ci devo andare!”- esclamai tra me e me.
Così mi sono organizzata e solo per una notte (mio malgrado, avrei voluto farlo per tante notti!) sono riuscita a prenotare un’esperienza magnifica: una giornata nella famosa Casa sull’albero, una vera e propria struttura in legno inserita in un contesto naturale incantevole.
La mattina ti attende una colazione deliziosa posta all’interno con una cesta piena di ingredienti biologici di qualità, tutti fatti a mano.
Non so dire se l’esperienza si è avvicinata di molto alla sensazione della mia lontana tenda indiana (anche perché in tenda esistono molti disagi, nella casa si stava una meraviglia), però lo spirito con cui ho goduto quella giornata così particolare è stato come quello di quando vidi quella tenda piena di piume nel giardino di casa. Una gioia inestimabile.
E’ chiaro che non si possano spiegare a parole certe sensazioni, bisogna viverle. Peccato non potere trasmettere le emozioni suscitate da quei colori, da quella semplicità, dal fruscio del vento, dal gracchiante e continuo strillare delle cicale, dai rumori notturni che si creavano immersi in quell’atmosfera.
Quel che so è che ancora una volta ho saputo cogliere quanto si è piccoli di fronte alla maestosità della Natura, che mi piace pensare che sia da sempre ricca di anima, e che sia buona e amichevole solo con chi si permette di rispettarla e di volerle bene.
Come quando ti piaceva fissarla ore ed ore nei suoi movimenti all’interno di quella tenda attorniata di verde, che ti cullava i pensieri di buono.
Non so se altre persone possano apprezzare questo tipo di esperienze, ma quel che so è che Io mi sono fatta un regalo immenso e sono tornata per una notte una bimba Apache nel suo regno.
Che alla fine certi sogni sono inestimabili proprio perché toccano il nostro essere più primitivo.
“La Terra non appartiene all’Uomo, è l’Uomo che appartiene alla Terra”
“E alzando gli occhi vidi finalmente apparire, come un muro obliquo, tutta Matera. Di lì sembra quasi una città vera. Le facciate di tutte le grotte, che sembrano case, bianche e allineate, pareva mi guardassero, coi buchi delle porte, come neri occhi. È davvero una città bellissima, pittoresca e impressionante.“
(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli)
Pensavo fosse un modo di dire ed invece devo ricredermi. Dal momento in cui varchi la strada pedonale che da Matera ti conduce ai Sassi di Matera- dal cui ingresso svetta il cartello ”Patrimonio dell’Unesco“- i tuoi occhi rimangono letteralmente (e non) di Sasso.
Davanti a te si aprono solo stradine acciottolate fatte di pietra morbida, scalini che delimitano tutto il perimetro dell’ingresso e colori che dall’oro volgono al bronzo, al grigio del finto tufo (in realtà tutti i rivestimenti sono fatti di calcarenite), al verde delle finestrelle.
Come di incanto ti senti parte di un presepe vivente, e in un attimo pensi che da un vicolo all’altro potrebbe sbucare un qualche personaggio religioso. Non a caso è stata proprio Matera, con i suoi sassi ed il suo immenso promontorio della Murgia, a fare da sfondo a film come “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini e “La Passione di Cristo” di Mel Gibson.
Matera è una città tra le più antiche del mondo il cui territorio custodisce testimonianze di insediamenti umani a partire dal paleolitico e senza interruzioni fino ai nostri giorni. Rappresenta una pagina straordinaria scritta dall’uomo attraverso i millenni di questa lunghissima storia.
Matera è la Città dei Sassi, il nucleo urbano originario, sviluppatosi a partire dalle grotte naturali scavate nella roccia e successivamente modellate in strutture sempre più complesse all’interno di due grandi anfiteatri naturali che sono il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano. I Sassi, non tutti sanno, si identificano come dei quartieri, composti da tante case.
In principio il Sasso Caveoso era quello dove alloggiavano persone meno abbienti, spesso povere e con uno stato di disagio molto forte (privi di luce in casa, spesso mancanti di sistema di tubatura corretta, di acqua calda).
Ora il Sasso Caveoso è un gioiello a cielo aperto e sottoterra: caratteristico e rude, ha fatto spazio a suite di alto livello e a ristorantini davvero bellissimi.
Il Sasso Barisano era invece quello della gente borghese, e dunque predisposto in un dislivello più alto rispetto alle altre costruzioni. In alto, oltre ai Sassi, si ergono tuttora palazzi e case di facciata tipiche del 500, di estrazione nobile. (Vi è traccia di sfaccettature di edifici dalle differenti dimensioni che rifletteva la diversità di ranghi familiari e sociali dell’epoca).
Quel che incuriosisce è che questi complessi di casette siano intersecate fra loro in un unico intreccio labirintico, e che i tetti di una divengono fondamenti dell’altra.
Il 17 Ottobre 2014 Matera è stata designata Capitale Europea della Cultura per il 2019: la città è al centro di un incredibile paesaggio rupestre che conserva un grande patrimonio di cultura e tradizioni, ed è sede di eventi espositivi di grande prestigio nazionale ed internazionale.
Io ho avuto modo-casualmente e inaspettatamente- di assistere ad una mostra dedicata a Salvador Dalì– da sempre il mio artista preferito- che oltre ad essere installata dentro ad una Chiesa grotta chiamata Madonna delle Virtù (un gioiello da esplorare), si teneva anche a cielo aperto. Di seguito qualche foto di questa meravigliosa installazione:
L’architettura irripetibile dei Sassi di Matera racconta la capacità dell’uomo di adattarsi perfettamente all’ambiente e al contesto naturale, utilizzando con maestria semplici caratteristiche come la temperatura costante degli ambienti scavati, la calcarenite stessa del banco roccioso per la costruzione delle abitazioni fuori terra e l’utilizzo dei pendii per il controllo delle acque e dei fenomeni meteorici.
La struttura architettonica è costituita da due sistemi, quello immediatamente visibile realizzato con le stratificazioni successive di abitazioni, corti, ballotoi, palazzi, chiese, strade orti e giardini, e quello interno e invisibile a prima vista costituito da cisterne, neviere, grotte cunicoli e sistemi di controllo delle acque, sistemi essenziali per la vita e la ricchezza della comunità.
Matera è una città dalla storia affascinante e complessa: città di confine, di contrasti, di competizione e fusione tra paesaggi, civiltà, culture, diverse. Dalla civiltà rupestre a quelle di matrice bizantina ed orientale, all’avvento dei Normanni, il sistematico tentativo di riduzione della città rupestre alle regole della cultura della città europea: dal romanico, al rinascimento, al barocco, gli ultimi otto secoli di costruzione e rifinitura della città hanno tentato di plasmare, vincere le naturali resistenze del preesistente habitat rupestre, determinando architetture e sistemazioni urbane di particolare qualità ed originalità.
Eppure è soprattutto nella notte che Matera assume tutta la sua beltà: con il calare del sole e le prime ore della sera, il cielo si tinge di un rosa terso e di un arancione che richiama ed esalta il colore già bronzeo dell’architettura. Le case si illuminano con lucine arancioni poste tutto attorno alle vie, a sottolineare la morfologia pittoresca e labirintica degli edifici, dando un tocco di profondo calore tutto intorno.
Una vera meraviglia agli occhi.
Per i più avventurosi (come me 🙂 ) vi è poi la splendida passeggiata di circa due ore che dal piano del Sasso giunge fino al Parco della Murgia, il promontorio ricordato per essere stato il luogo di scena delle crocifissioni che abbiamo visto nei noti film. (“La passione di Cristo” è uno di questi).
I terreni sterrati si fanno brulli e selvaggi, i colori del prato verdi e gialli aridi lasciano spazio a sassi e sassetti grigi che mettono in repentaglio la discesa pericolante dei primi passi di marcia. Un ponte tibetano da film d’azione collega una parte della discesa al promontorio ove ci attende la salita. In questo punto si è proprio al di sopra della Gravina che abbraccia tutto il paesaggio di Matera, un vero e proprio canyon che cade nel profondo.
Il cammino permette di scorgere grotte naturali che si aprono dirette verso la città, consentendoti di ammirarla dall’alto e di respirare tutto intorno l’immensa cultura di quei luoghi storici e unici al mondo.
Come sempre la salita è tosta, ma la veduta ripaga ogni sforzo.
Matera è stata scartata ed emarginata, ma come una fenice ha risaputo brillantemente risalire dalle sue stesse ceneri. Una prova di riscatto e di contrasto alle discriminazioni da cui dover apprendere.
Ciao Matera bella, è stato un piacere vero conoscerti: sono certa che la tua poesia nostalgica tornerà a farmi compagnia nei momenti più bui dell’inverno.
“Matera è un posto difficile da descrivere. È difficile persino da fotografare. Sfugge alle definizioni, sguscia via tra uno scatto e l’altro, tra parola e parola. Bisogna andarci. Per godere il silenzio assorto, che vibra però di continuo, agitato da una vita sotterranea, come sotterranei sono i Sassi. “
“Il tempo è un gioco, giocato splendidamente dai bambini” (Eraclito)
E’ da quando mi sono trasferita nella mia casina nuova che mi capita, sempre alla stessa ora, di poggiare le orecchie e di fissare lo sguardo alla finestra del mio studio e di scorgere un panorama bellissimo.
Non tanto perché da un piano così alto riesci ad osservare uno spazio di veduta che non credevi nemmeno possibile, quanto perché ogni giorno alla stessa ora sguazzano liberi e felici i bambini che si trovano nel giardino della scuola elementare sotto casa.
Così mi stoppo dal tran tran di mail quotidiane e osservo, come fosse un momento di sana meditazione e di meraviglia che tengo tutto per me: li vedo correre, liberi e spensierati, con il loro grembiulino e le scarpette spesso slacciate, e girano come ruote di una macchina che ha perso la traiettoria ma che continua a muoversi per inerzia, senza tregua.
E li senti, che urlano, ridono, cantano. Ed è un attimo: momenti che si fanno vividi, giorni che pensavi sepolti in qualche recondito angolo della tua mente, tutto torna e si fa chiaro. Inevitabile ricordare con sana nostalgia quei momenti così piccoli e felici della tua infanzia, quella cosa che ora ti sembra così pallida e remota.
E ci pensi, a quante corse sfrenate da lì a poco avrai dovuto affrontare, quante risate, quanti pianti, quante sbucciature di ginocchia. Una vita che sembra passare alla velocità della luce ma che di improvviso e di incanto sembra fermarsi a quelle risate spontanee che ti attendevano nell’ora di ricreazione, quando l’unico pensiero sarebbe stato quello di dove nascondersi bene per non farsi vedere nel gioco di nascondino.
Così mi prendo il tempo di vedere questi bimbi e di immaginarli liberi, senza freni, alle prime armi su ogni cosa, ma senza alcuna preoccupazione di quel che sarà- tanto ci penseranno più avanti- dico io.
E allora credo che, forse, per continuare a vivere con la gioia e la curiosità sana di un bimbo quella leggerezza non debba perdersi mai, che alla fine è proprio lì il segreto di una vita piena e serena.
E vorrei dire loro di non fermarsi durante una corsa con sbucciatura di ginocchia e di non piangere troppo per una possibile ferita, che si rimarginerà e che saranno altre le cose per cui piangere, quelle che ti piglieranno senza preavviso in un giorno qualunque; di non preoccuparsi troppo del compagno che ti dice che sei una bambina e che quindi conti meno, perché alla fine le tue corse saprai farle benissimo, e ci arriverai lo stesso, bimbo o bimba che tu sia, e magari li sotterrerai quei commenti con una proprietà di linguaggio ed un coraggio che non crederai neanche di possedere. Bisogna incassare, farsi il callo, ma non arrendersi nel walzer della vita.
Questo mi sentirei di dirvi, piccoli.
Correte liberi ed, anche se vi sembrerà lontano quel giorno, ricordate di non preoccuparvi troppo del domani, mantenete quella leggerezza e quella ingenuità che vi contraddistinguono, che il tempo per crescere e pensare alle conseguenze arriverà.
Ora bisogna solo giocare, buttarsi a terra e gridare un “Un due tre stella” senza sosta. La Vita poi, vi mostrerà tutti i punti del disegno che ora state solamente annusando.
Correte selvaggi e create rumore attorno a voi. Siate luce in un mondo di ombre.
C’è una città italiana talmente isolata da tutto il resto dell’Italia che se devi andare é perché vuoi andarci. Non è una città di passaggio, ma una città di confini. Confini fisici, ma anche confini culturali.
Un luogo dove le memorie del Mitteleuropeo trionfano. Una terra enigmatica di marinai e scrittori.
Una città che può essere descritta anche con una sola parola.
Eleganza.
Già, l’Eleganza le si addice alla perfezione.
I maestosi e affascinanti palazzi e i caffè storici aiutano a fare un salto indietro nel tempo, ma lei è una città che guarda al futuro. E lo fa in modo determinato.
C’è una città italiana dove per andare si deve proprio voler farlo.
Ma una volta fatto, non si può che voler tornare.
Trieste, di mari, di bora, di arte, di cultura e di luce.
TRIESTE, nel suo splendore estivo
Trieste è la città che dà ai suoi figli un’anima in tormento e per questo è amata.
No filter ever. Anni fa feci un viaggio inaspettato ma bellissimo, forse uno dei più magici che potessi immaginare. Intanto perchè fra svarioni e risate e scene tragi-comiche ho fatto da hostess per due settimane in una barca di dimensioni ridotte con a bordo diversi sconosciuti (che si sarebbero poi rivelati grandi compagni di avventure), poi perchè forse proprio da allora il mio amore immenso per il mare e per la libertà che si respira in barca a vela ha cominciato a farsi forte. Le Eolie, che natura meravigliosa. Si disse che qui Ulisse perse la rotta ed in effetti come biasimarlo.
Ho ricordi così speciali che mi verrebbe da scrivere per ore e quindi credo sia meglio evocare qualche immagine significativa.
Non esiste filtro che tenga per descrivere la burrascosa libertà che ho respirato. E poi il mio tuffarmi da sola verso mete sconosciute chiamata come aiutante skipper (e che skippers), totalmente improvvisata alla Fantozzi. Amici straordinari e tante follie è quel che ha condito un grande viaggio ‘solitario’ alle prese con tornadi e alla forza inarrestabile della natura.
Ma come sempre ne è valsa la pena, si signori. Che alla fine i capitani non mollano mai la nave, neanche nei momenti più impervi.
Eolie, sarete sempre nel cuore come qualcosa di potentissimo.
Oggi così..
Pensieri leggeri di una ex hostess pirata e maledetta che tanto ha sofferto inconsapevolmente il mal di terra da essersi convinta che forse è proprio nel mare- tra baricentri scentrati e forza nove- che risiede il mio posto.
Quando gli eventi ci colpiscono nel profondo è possibile che dopo non siamo più gli stessi.
Ma le possibilità sono due: diventare più duri, o diventare più morbidi. Possiamo lasciarci sopraffare dalla sofferenza e dalla delusione, dallo sconforto e dal pessimismo. Oppure possiamo acconsentire a che quelle ferite ci rendano più dolci, lascino entrare la luce nei loro tagli fino a raggiungere il cuore. Ecco perchè la vita richiede coraggio e forza, ma quella forza non va identificata con la durezza, bensì con la dolcezza accogliente, con l’apertura, con la morbidezza.
In un mondo labile, che si è scoperto fragile e a tratti freddo, scostante, assassino, che ci ha voluti distanti e isolati, spersonalizzati e senza espressione, ho riscoperto i valori semplici e le piccole bellezze del quotidiano, e la tua mano, insieme agli abbracci ed ai tuoi baci, caldi e pieni come il sole ad agosto.
Che importa quel che resta del mondo se ci sei tu vicino, che mi hai saputa coltivare come una piantina di avocado nelle intemperie, pur non senza fatica, che quella non manca mai, ma alla fine sono le difficoltà a rendere la rosa ancora più splendente.
Un giorno mi scrissi: “Siamo come due pianeti dello stesso sistema solare che si attraggono. Ogni tanto si staccano dei meteoriti che sembrano colpirci, ma siamo talmente allineati che li schiviamo”.
Avevi ragione, quasi un anno fa mi hai presa per mano delicatamente e con grande simpatia e dolcezza non mi hai mai abbandonata, dote non da poco visto come gira il mondo. Eh si, sono fortunata.
Oggi mi andava-semplicemente- di ringraziarti per quel che sei, silenziosamente, senza pretese e senza grandi parole.
Che le cose migliori sono piccole a volte, ma così potenti da resistere anche ai virus più ostinati e terrificanti.
Quando ripenso alla Scala di Milano, luogo fra i più cari e speciali che si possano ricordare, mi sovviene la parola Famiglia.
Sì, perché per grande fortuna ho potuto frequentare la Scala fin da piccina, quando mia nonna ci portava insieme a mio papà ad ascoltare melodie tra le più belle al mondo, intonando versi della Carmen o della Turandot.
Quando hai undici, dodici anni (probabilmente la prima volta che misi piede alla Scala), le grandi cose le percepisci così difficili, così lontane e non riesci a comprenderne perfettamente il valore. Per me La Scala rappresentava un’ enorme scatola rossa fatta di luci, di magnifiche donne vestite con abiti lussuosi e luccicanti, di meravigliosi uomini in abito e di balocchi e sorprese ad ogni angolo. Ricordo che mia nonna ci faceva esplorare le camere più segrete, quelle dove si custodivano gelosamente importanti spartiti o quelli dove riposava l’orchestra nei momenti di pausa.
Adoravo rincorrere pazzamente mio fratello da una postazione all’altra, nascondendomi fra le porte di velluto rosso che separavano le singole logge. Poi mi divertivo ad ammirare col binocolo tutti i visi dei musicisti, a volte sorridenti, a volte in procinto di sbadigliare, a volte palesemente agitati. Per non parlare del cercare di dare un senso alle mille coppie così strambe che si ergevano all’interno del teatro, di comprenderne la loro storia, il loro umore, e quali professioni potessero rappresentare. Quali i loro desideri reconditi, quali i loro segreti, quali le loro paure.
Per me La Scala è parte di adolescenza e di crescita, una culla in cui sono capitata e che col tempo mi ha affascinata a tal punto da farmi innamorare del teatro in tutte le sue forme e di farmi intraprendere la laurea in Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo. Quante cose diamo per scontate troppo spesso che poi ci influenzeranno a vita.
Sono convinta che parte della mia immaginazione sia stata inconsciamente condizionata dal mondo variegato che scaturiva da quel teatro. Il Teatro per eccellenza.
Non credo esisti serata che non ti soddisfi alla Scala. Anche i meno amanti del mestiere trovano di che lasciarsi intrigare in quella piccola grande dimensione umana.
Quando persi mia nonna ripensai subito alla sua immensa passione per il balletto, per l’opera e per quel posto di mondo, e appena mi ricapitò di tornare alla Scala, era come sentirla ancora lì, che mi abbracciava forte sorridendomi insieme ai suoi idoli artistici preferiti. Saperla lì mi rendeva felice.
Credo che chiunque abbia un poco di sensibilità artistica debba dare uno sguardo almeno una volta nella vita alla Scala. Ma non basta andarci e scattare fotografie degne dei più bei post social, bisogna respirarla, odorarla, viverla intensamente. Come quando la si scopriva ingenuamente con gli occhi di una bambina curiosa.
Certi colori e certi suoni rimangono in eterno, ecco perché credo che alcune meraviglie, alcuni posti e alcune persone siano per sempre. Sono sempre stati lì, siamo semplicemente noi a doverli far rivivere con cura.
Credo nella meraviglia e non vedo l’ora di immergermi nuovamente in quel mondo bizzarro e luccicante e fatto di musica con gli occhi di una adulta che non ha mai smesso di sognare.
Quella dimensione che ora manca più che mai, perché quella scatola calda di balocchi luminosi e di melodie per l’anima, sapeva farti sospendere dal mondo reale spesso troppo brutale e meschino.
Ci sei tu, cala il sipario e con essa tutte le preoccupazioni. Almeno per quell’attimo di spettacolo, tutto si fa sereno e finalmente buono.
D’altra parte “Il teatro è una zona franca della vita, lì si è immortali. “
Questa estate è stata senza dubbio differente, particolare, a tratti piena di salite e percorsi scoscesi, ma anche così rigenerante, così unica da meritare delle righe al mio rientro.
Sapete, sono da sempre innamorata del Mare, che sia estate o inverno, che sia freddo o caldo, piatto o burrascoso, ne sono follemente grata e ogni volta che sono in acqua è come se stessi al sicuro, lontana da tutti e da tutto.
Quest’estate però ho optato per dare la meglio alla Montagna, ai sentieri isolati, ai cammini pieni di irrisolute domande.
Iniziando da un viaggio che è stato davvero meraviglioso in compagnia della mia grande amica Anna, ho improvvisato letteralmente una settimana on the road fra Umbria e Abruzzo. Inutile dire che sia stata una delle esperienze di viaggio più complete e belle che abbia mai fatto, forse perchè ci si svegliava non sapendo se avremmo avuto un hotel ad ospitarci, forse perchè le tappe sono state decise all’ultimo secondo, senza sveglie nè limiti temporali, o forse perchè mi son goduta un’ottima compagnia e perchè alla fine abbiamo proprio fatto di tutto: città d’arte, mare, natura e anche montagna e sentierini.
In seguito ho proseguito la mia direzione verso Nord, godendomi le mie care e da sempre amate montagne delle Dolomiti, improvvisando trekking in compagnia della mia fidata Onda, il cane a 4 zampe che amo più che mai.
L’italia è proprio meravigliosa, ed è definitivamente vero che abitiamo nel posto più magico al mondo. In particolare sono stata colpita da due luoghi magici che ho avuto la fortuna di poter cogliere appieno (e a polmoni pieni!):
Campo Imperatore, in Abruzzo, all’interno della catena montuosa del Gran Sasso e anche definita ”Piccolo Tibet” per il misticismo estremo che ne configura il paesaggio; Le tre Cime di Lavaredo, nella mia amata Val Pusteria, in Alto Adige, catena montuosa delle meravigliose Dolomiti.
Alle pendici del maestoso Gran Sasso si estende Campo Imperatore, straordinario altopiano abruzzese conosciuto anche come “Piccolo Tibet”. Un nome davvero importante che evoca paesaggi eccezionali e anni di storia geologica tumultuosa.
Il paesaggio è davvero brullo, desertico, e così pieno di animali tra cui mucche e cavalli pascolanti da mettere subito gioia; non è facile vedere una fauna così libera e selvaggia al giorno d’oggi. Di improvviso gli occhi si riempiono di sfumature verde e gialle di una tonalità accesa che ricorda molto quella delle splendide Highlands Scozzesi, un misto fra paesaggio lunare e marziano. Che pace che si respira.
Con Anna ho imparato a meditare, giorno per giorno, e Campo Imperatore diviene presto meta di giusto silenzio e benessere per poter attuare qualche minuto di meditazione rigenerante. Una vera pace per occhi, orecchie e cuore.
Ma Campo Imperatore affascina i suoi visitatori anche per la sua vastità, il silenzio e la genuina primordialità. Capanne di pietra, recinti per gli animali e chiese tratturali testimoniano la forte cultura pastorale della zona. Infatti, ancora oggi si possono incontrare greggi di pecore e bestiame vario a pascolare nella vallata.
E’ davvero bello-penso io sotto voce- poter scorgere animali che camminano spavaldi venendoti incontro senza temere alcuna paura. Ti ricordano giustamente che la terra è anche loro, e che tu sei un ospite, e dunque è bene rispettare ogni piccola creatura.
L’immensità di colori che si scorge dalla vetta è impressionante, e per poco fatichi a pensare di essere in Italia, perché camminando nei sentieri di montagna e giungendo al cielo ti senti così piccolo e minuto di fronte all’Universo che ti attornia, da poterti trasportare ovunque.
E’ proprio vero che ovunque tu vada devi andarci con il tuo Cuore ben presente- come sosteneva il buon Confucio- e Campo Imperatore merita di essere attraversata con cura, con lentezza, godendosi ogni istante di primitiva semplicità e naturalezza senza alcuna fretta. E poi finalmente perdersi.
Passando al Nord, in Alto Adige, merita grande attenzione la camminata più bella che possa esistere nelle Dolomiti, quella delle Tre Cime di Lavaredo.
Montagne entrate nel mito e nell’immaginario: chi non le ha mai viste, almeno su qualche cartolina o guida turistica? Quelle tre vette una di fianco all’altra, isolate da tutte le altre, pura dolomia che emerge da un mare di ghiaia.
Vi sono diversi sentieri che portano alle Tre Cime, ma noi scegliamo minuziosamente quello più completo: dalla Val Fiscalina ci attendono circa 3 ore di cammino su stradine impervie e strette fatte di sassi e ghiaia, un tour panoramico selvaggio che merita una sveglia all’alba e di assaporare a pieni polmoni il panorama ad ogni cambio di direzione, gradino dopo gradino.
Quando l’aria si fa più rara, e la fatica avanza, la primissima cosa che ti viene in mente è pensare a chi te lo abbia fatto fare. Ma ad ogni passo di più la voglia di continuare è tanta, la meraviglia del paesaggio che si apre davanti agli occhi si mostra potente.
Scalare le montagne diventa ben presto una lotta alla resistenza, una metafora della vita, un faro per la speranza di un mondo migliore. La fatica si trasforma in passione, la durezza dei sassi diviene fedele amica, la meta inarrivabile si fa terra promessa.
E’ così che mi immagino le sensazioni che i grandi pellegrini e camminanti della storia debbano aver provato: “se sei in cerca di angeli o in fuga dai demoni, vai in montagna“- sosteneva qualcuno.
Una volta giunti in vetta, l’aria frizzantina si fa di nuovo calda, si spoglia di ogni timore e ti restituisce un dono incommensurabile: la soddisfazione è tanta, e la magnificenza delle tre cime che svettano senza pietà ti appaga di ogni dolore.
Non contenta decido di seguire autonomamente una guida che conduce a piccoli gruppi la visita verso il Monte Paterno, alto 2.746 metri. È storicamente famoso, dato che durante la prima guerra mondiale si trovava lungo la frontiera tra il confine italiano e quello austriaco. Al suo interno furono quindi scavate alcune gallerie e diverse grotte, tra cui il famoso tunnel per raggiungere la cima.
Quel che più mi colpisce di questo sentierino davvero impervio (sei a due passi dallo strapiombo, un toccasana per chi come me soffre di vertigini) è il pensiero di come i militari italiani avessero potuto trasportare kg e kg di cannoni e di armi e di aver creato dal nulla grotte avvalendosi di dinamite che le avrebbero trasformate in vere e proprie difese di resistenza.
Ancora una volta, la vista delle tre Cime lascia col fiato sospeso e si, ne è proprio valsa la pena.
Definitivamente appagata, lascio altrove i pensieri negativi e faccio il pieno di aria pura e di bellezza, considerando finalmente ogni momento come unico ed ogni filo d’erba incontrato un piccolo grande regalo.
Sorrido, fra lacrime di gioia e di commozione, e penso a voce alta “Se non scali la montagna, non potrai mai goderti il paesaggio”.
Chi riesce a camminare nel sentiero della verità, non cade mai. Magari si inciampa, si zoppica, ma ci si rialza più forti e decisi di prima. In fondo è proprio vero, non ci si ricorda di tutti i passi del lungo cammino che si è fatto, ma delle Impronte che avremo lasciato.
“Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio.“ (Antoine de Saint-Exupery)
Anni fa visitai gli Emirati Arabi e come sempre ciò che più ricordo con fervore sono stati gli “incontri” (oltre che con la realtà locale) in solitaria con i paesaggi che mi capitavano a tiro.
Inutile dire che all’infuori del materialismo e dello scintillio commericale di Dubai, risiede una pace e uno splendore naturale che nulla avrebbero da invidiare a nessun’altra beltà.
Si tratta dell’immenso deserto di Dubai, dove i colori ocra e oro non hanno bisogno del benchè minimo filtro; laddove occhi e sguardo si perdono di fronte a una vastità così infinita, così silenziosamente perfetta, così maestosa.
Ma come sempre amo ricordare, paesaggio e meta sono poca cosa in confronto al viaggio compiuto per giungerci. E che viaggio, ancor ora mi vengono i brividi!
E’ proprio una volta arrivati in pieno deserto che inizia infatti l’esperienza più divertente, quando assieme al fidato zainetto e alle sole gambette si inizierà a salire e scendere dalle dune rosse di Al Hibab, un vero paradiso idilliaco per gli amanti delle montagne russe, del surf, dell’adrenalina a manetta; un vero ‘omaydaymayday’ per coloro che invece soffrono del mal d’auto e sono pronti a vivere delle esperienze memorabili, ma anche a maledire qualsiasi cosa in quel momento di possa avere la possibilità (assai remota) di riconoscere (in preda di ululati e di urli da film horror).
Ebbene sì, perchè i guidatori più esperti non mancano mica di folle fantasia: su e giù per dirupi ripidissimi, come adolescenti in preda al loro nuovo giochino si incaponiscono con ruote e giri panoramici senza mezze misure, impennando con tanto di musica ‘tuz tuz’ estrema e sterzando come se non esistesse altro modo di guidare che quello alla “Fast and Furious” orientale.
Una vera giostra di emozioni oltrechè di scongiuri e di frenesie, ma all’ennesima discesa a mille all’ora e all’ennesimo ‘aiuto oddio ma chi me lo ha fatto fare mannaggiaaa!’, finalmente una consapevolezza: ci si ferma insieme alla scorribanda complice del tuo momento glorioso e avventuroso e si tira un respirone di sollievo e ogni paura scivola via come neve al sole non appena si torna a toccare ‘terra’.
Giusto qui se clicchi su ‘dubai’ ti preparerai a capire ciò di cui sto parlando…
Insomma, dopo questa bomba adrenalinica, il traguardo al calar del sole è unico e ricompensa di tutti gli scompensi cardiaci in atto: l’arcobaleno di colori dorati tra mille sfumature di oro e di rosso non ha eguali. Come una tavolozza dipinta da un artista puoi disegnare le dune e vederci riflessi anche i colori più offuscati e con loro i tuoi pensieri più reconditi.
Dev’essere proprio questa la sensazione di pace tanto contemplata ed auspicata dai viaggiatori nomadi: un senso di profonda riconoscenza verso tutto il Creato, quella piacevole scoperta di sentirsi immensamente connessi con il qui e l’ora, mentre il contorno e la mente si perdono in un unico tutt’uno.
L’esperienza tra le dune continua fino a sera, dove il buio pesto si fa improvviso e gelato, dove l’escursione termica non conosce certo vie di mezzo.
Così proseguiamo la gita in accampamenti dei tipici beduini, ricchi di tappeti colorati, di tavole imbandite di riso e di mille spezie, di donne che danzano danze ‘tannura‘, di allegre truccatrici che espongono soddisfatte i loro tatuaggi hennè, insomma, un vero e proprio mix di giochi, suoni e colori.
Che vuoi uscire dal deserto senza aver prima allegramente dialogato con tipici beduini e aver condiviso con loro il tipico shisha, comunemente conosciuto come narghilè?
E no eh! Eccovi una riprova del misfatto:
Che poi da non fumatrice non ho mai amato i ‘fumi’, ma assicuro sulla bontà di quel gusto alla mela e cannella. ooooommmmmh.. Un soffice momento di relax dei più veri, che mette pace anche al cuore dei meno impavidi.
Devo ammettere che il deserto di notte- privato di ogni minimo tassello di luce- trasmette un senso di timore non da poco, ma allo stesso tempo affascina e incanta anche i più scettici alla magia.
A fine serata, al calare del sole, si tornerà ai bagliori di Dubai, segnale che il rientro in hotel è ormai vicino.
Ma vuoi mica perderti l’ultima estrema avventura del rientro? Qualcosa può mai essere del tutto semplice e lineare per me? Giammai!! Tanto si fa che la nostra folle jeep buca una ruota, e quindi bisognerà attendere un bel pò prima che il nostro amato autista- in quel momento imprecando in ottomila dialetti beduini non so bene che cosa ma immaginate- risolva la situazione da bravo aggiustatutto self-made.
Eh si, perchè se non ti fai le ossa nel deserto, dove te le fai?
Questa è stata una delle tante meravigliose e forse un pò buffe avventure che mi son capitate fra tanti viaggi portati (stranamente) a termine nella mia lista di Ricordi indelebili.
Di fronte a mesi e mesi di comfort zone in casa a causa di una quarantena causata da pandemia Covid, mi sovviene alla mente l’immagine ben chiara e vivida di quel mare di granelli color ocra sfumati dal vento e quel silenzio che voleva dire tutto e che sapeva sussurrarmi piano un’ennesima sacra verità:
“Viaggiare nel deserto significa camminare nella nostra solitudine per imparare a dar valore anche alle più piccole cose.”
Ora sì, forse lo so. Anche la solitudine ha la sua gloria, il suo incanto, la sua notte improvvisa e senza via d’uscita, il suo senso più temuto, la sua benevolenza: la capacità inconfutabile e assoluta di saper rimettere a posto ogni pepita di sabbia al suo luogo. Esattamente lì, dove doveva STARE.
Perchè mi piace pensare che sì, in quello spazio indefinito e inafferrabile che è il deserto assolato vi giaccia qualche granello di polvere che si trova esattamente dove sognava, esattamente con chi voleva.
E se lo ha fatto l’immenso deserto, dopo millenni di grande Storia, possiamo concentrarci a farlo poco alla volta tutti noi. In un minuzioso sacro Silenzio nella nostra preziosa Esistenza color ocra.
“La vita è un naufragio, ma non dobbiamo dimenticare di cantare nelle scialuppe di salvataggio.” Voltaire
E’ stato un compleanno di certo alternativo, considerando che avrei dovuto esser a Parigi..Ebbene, in realtà sono stata DAVVERO felice di esser dove mi trovavo (prima foto- con occhi stropicciati, capelli scapigliati, tuta sponsored by @seashepherd, no trucco da che mi ricordi e nel letto di casa mia) perché alla fine è proprio dove avrei dovuto essere, travolta da affetti, messaggi e chiamate (di molte inaspettate), pensieri da tutto il mondo e una gioia di casa che non provavo da tanto. Ebbene, tra l’incertezza di passare a festeggiare (in un momento dove tutto si vuol fare fuorché festeggiare) in giardino o in cucina, beh, io ho capito davvero che la felicità è cosa preziosa e che nonostante tutto io mi sento così grata e così serena. Certo magari preoccupata, giustamente e tristemente preoccupata, ma non voglio mai perdere di vista quanto bello sia sentirsi a casa, valorare il tempo che prima era cosa così scontata, non fissare forsennatamente l’orologio, godersi quegli attimi semplici che sono diventati il vero senso del tempo, quello del cuore e digli affetti veri, e del mio personale Stare. Travolta da un calore semplice che mi ha rimosso ogni paura. Ancora una volta lo riconosco: e’ il calore dell’Amore che mi circonda e che e’ sempre stato lì. Non so cosa sarà di tutto questo, oggi mi va di ringraziarvi uno ad uno per il tempo dedicato a farmi un augurio, in un momento così delicato per tante troppe persone. Ma di una cosa sono certa: ci penserò mille volte quando sarò insieme a qualcuno prima di dire “va beh ma c’è tempo..” e via andare, di correre all’ impazzata senza fermarmi un attimo, di fantasticare di essere sempre altrove. Oggi finalmente imparo a Stare, con gli affetti più cari (vedi seconda foto), e riesco a focalizzarmi solo sul Presente. Speriamo che tutto questo passi per potervi abbracciare ad uno ad uno come se non l’avessi fatto mai. Torneremo a respirare a pieni polmoni il vento dal finestrino andando incontro a terre sconosciute? (Terza foto) Io voglio pensare di sì e che sarà tutto ancora più sentito, con una consapevolezza nuova e non scontata: ogni momento va gustato per quello che e’, non per quello che dovrebbe essere. Un abbraccio virtuale a tutti, specialmente a chi ha perso qualcuno in un momento così surreale. 💙
” A ogni passo del suo cammino Siddharta imparava qualcosa di nuovo, poichè il mondo era trasformato e il suo cuore ammaliato. Vedeva il sole sorgere sopra i monti boscosi e tramontare oltre le lontane spiagge popolate di palme. Di notte vedeva ordinarsi in cielo le stelle, e la falce della luna galleggiare come una nave nell’azzurro. Vedeva alberi, stelle, animali, nuvole, arcobaleni, rocce, erbe, fiori, ruscelli e fiumi; vedeva la rugiada luccicare nei cespugli al mattino, alti monti azzurri e diafani nella lontananza; gli uccelli cantavano nelle risaie. Tutto questo era sempre esistito nei suoi mille aspetti variopinti, sempre erano sorti il sole e la luna, sempre avevano scrosciato i torrenti e ronzato le api, ma nel passato tutto ciò che non era stato per Siddharta che un velo effimero e menzognero calato davanti ai suoi occhi, considerato con diffidenza e destinato a essere trapassato e dissolto dal pensiero, poichè non era realtà: la realtà e era al di là delle cose visibili. Ma ora il suo occhio libero s’indugiava al di qua, vedeva e riconosceva le cose visibili, cercava la sua patria in questo mondo, non cercava la “Realtà”, nè aspirava ad alcun al di là. Bello era il mondo a considerarlo così: senza indagine, così semplicemente, in una disposizione di spirito infantile. (..) (..) Tutto ciò era sempre stato, ed egli non l’aveva mai visto: non vi aveva partecipato. Ma ora si, vi partecipava e vi apparteneva. Luce e ombra attraversavano la sua vista, le stelle e la luna gli attraversavano il cuore”.
Il cuore muore di morte lenta. Perdendo ogni speranza come foglie. Finché un giorno non ce ne sono più. Nessuna speranza. Non rimane nulla. Se un albero non ha né foglie né rami, si può ancora chiamarlo albero? Lei si dipinge il viso per nascondere il viso. I suoi occhi sono acqua profonda. Non è per una geisha desiderare. Non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo che fluttua. Danza. Canta. Vi intrattiene. Tutto quello che volete. Il resto è ombra. Il resto è segreto. Non si può dire al sole “più sole”. O alla pioggia “meno pioggia”. Per un uomo, la geisha può essere solo una moglie a metà. Siamo le mogli del crepuscolo. Eppure apprendere la gentilezza, dopo tanta poca gentilezza, capire come una bambina con più coraggio di quanto creda, trovi le sue preghiere esaudite, non può chiamarsi felicità? Dopo tutto, queste non sono le memorie di un’imperatrice, né di una regina. Sono memorie… di un altro tipo.
Che belle le Persone che antepongono l’ambizione alla Competizione. Che ridono con la gente e non della gente, che son così prese a migliorarsi e a vivere da non aver mai tempo per il becero pettegolezzo. Quelle che si adattano ai contesti pur senza perdere di personalità, Che se ne fregano delle apparenze e delle chiacchiere senza anima, Che cercano, si perdono, scardinano, indagano, si umiliano e si stravolgono per davvero. Che non pensano di essere stocazzo, perché preferiscono sporcarsi le mani e crescere a loro modo, comprendendo che la gentilezza può molto più dell’arroganza. Che prima di giudicare i terzi si fanno ottomila domande e ne rispettano la diversità. Che ti portano a ballare e a bere non appena ti sentono giù di tono, che ti scrivono canzoni improvvisate e che ti apportano più calore di un camino acceso. Che ci provano a non amare con tutti loro stessi, non senza fracassi e terribili figuracce, ma non riescono e non gli importa perche quella e’ la sola risposta possibile a tutto. Che credono ancora nei sogni e nelle idee, e che sanno difenderli con le unghie, se indispensabile. Ed anche quando le sorprese sono tante e non sempre come le vuoi, la vita è’ così preziosa e bella se la sai prendere col verso giusto. Magari rosso e con bollicine e assaporata insieme a Persone così. Meravigliose lampadine fisse in un universo di vai e vieni scostante e incerto. Da non ringraziare mai abbastanza. Che senso ha farsi così tante domande, se poi cambiano le risposte di continuo. Ma certe, certe proprio no. 💎
«On burnish’d hooves his war-horse trode; From underneath his helmet flow’d His coal-black curls as on he rode, As he rode down to Camelot. From the bank and from the river He flashed into the crystal mirror, “Tirra lirra,” by the river Sang Sir Lancelot.»
Ultimamente ho letto un libro meraviglioso, che narrava di imprese e di giorni trascorsi nelle terre amazzoniche da parte di un giovane avventuriero italiano.
Mi han colpito dei pezzi che espongo qui di seguito e che si avvicinano tantissimo al concetto dei miei viaggi e delle mie scoperte nel mondo,in totale fusione con il contesto.
“Viaggiare non significa visitare, fotografare e correre via; viaggiare significa immergersi, immedesimarsi, cogliere nel profondo e farsi travolgere e sconvolgere dal mondo. Viaggiare non significa solamente posare lo sguardo, ma diventare parte della visione.” “..ogni ambito della nostra conoscenza e’ infatti, come noi e il nostro parere, in costante evoluzione. Qualsiasi situazione sperimentata in passato, non sarà mai uguale a qualcosa di simile che deve ancora accadere; un bacio dato ieri non poterà con se’ le stesse emozioni di quello che stiamo per dare. E’ in questa novità, nell’ irripetibile unicità di ogni momento, di ciascun essere e di ogni emozione, che possiamo gioire. Scopriremo così che la felicità vibra in ogni singolo istante di gioia che avremo il coraggio di provare. Se avremo coraggio, se sapremo agire con il cuore, ci accorgeremo che la felicità non si incontra esclusivamente in ciò che ci va bene, ma anche nelle prove e nelle difficoltà che sapremo superare; se vivremo con gioia e positività ogni istante della nostra esistenza, allora sarà lì che la riusciremo a trovare. “
Sono sempre stata una piccola nomade, ho vissuto all’estero e sono profondamente legata alla scoperta, al valore dello scambio, alla condivisione tra differenti approcci culturali.
Quest’estate mi sono riproposta di volermi stupire, e, misurando la vecchia vera me-ahimè spesso assopita da giorni di lavoro fatti da ore scandite da orologio, traffico e mail aziendali- sono salpata verso l’ignoto.
Nonostante la pigrizia, le voci esterne e i consigli dei più (“attenta! sono luoghi molto pericolosi!“), presa dalla voglia maniacale di conoscere, mi son finalmente convinta e son volata via per terre inesplorate..destinazione: Brazil.
Il viaggio è stato molto intenso, non senza difficoltà e ‘pericoli’ quotidiani, ma ne è davvero valsa la pena: è proprio vero, i paesaggi erano incommensurabili, le atmosfere genuine e solari, la vegetazione folta e selvaggia. Da Rio de Janeiro, a Salvador de Bahia, passando per Morro de Sao Paulo (che paradiso!), quindi Recife, Japaratinga, Penedo, Sao Cristovao, per giungere fino Pipa e quindi terminare attorniati dall’oceano più blu in quel di Fernando de Noronha.
Un viaggio che ha rappresentato l’ennesima conferma di quanto poco mi freghi delle dicerie e dei giudizi esterni, e di quanto sia profondamente salutare vagare- ovviamente con accorgimenti e le dovute attenzioni- curiosare, immedesimarsi, approfondire un mondo non sempre e solo chiaro e lucente, ma riflesso di ombre e sfumature.
Come quando siamo andati in visita della favela più grande e forse più conosciuta di Rio de Janeiro, la comunità di Rocinha.
Conoscere la parte più difficile e reale di Rio mi ha permesso di relativizzare i miei problemi, che spesso mi avvolgono e mi totalizzano quasi come se il mondo ci girasse attorno. Ebbene la favela è un micro mondo, dove trovi di tutto, parrucchieri inclusi. Nel caos strutturale e labirintico del piano urbano, mi ha colpito la puntuale organizzazione con cui gli abitanti serpeggiano per le vie, non curanti dei turisti che passeggiano con aria sospettosa ed impaurita.
Un ragazzino ci insegna l’arte dell’attesa e del sorridere di cuore nonostante le difficoltà. Chapeau. Più affronto la traiettoria grigia delle scalinate pericolanti della favela, più mi capacito di quanto fortunata sia ad aver voluto partecipare a quel tipo di esperienza, così differente dal sogno brasiliano fatto di cartoline magnifiche e di spiagge tropicali che siamo abituati a conoscere.
Una Rio povera e misera, ma non di cuore: ricorderò sempre l’allegria e l’integrità infinita degli abitanti di Rocinha, che senza volerlo mi hanno donato un sorriso sincero. Uno scambio equo quello che ha visto i miei pensierini affidati ai bimbi della Onlus ”Il sorriso dei miei bimbi” di Barbara Olivi, in cambio della loro contentezza e della loro contagiosa solarità. Piccole grandi cose che fanno bene al cuore. Eh si, forse di fronte alla scelta così impegnativa di viaggio ho desiderato in parte proprio questo, un motivo semplice e spontaneo, che annullasse i tanti troppi musoni frutto di una società abituata al lusso.
E ancora una volta ripenso a quanto sia bello “tuffarsi” in un luogo, che immergersi non significa solo fare pit stop e ”piazzarsi” la firma, ma letteralmente farsi travolgere, sconvolgere, capovolgere, porsi domande ripetutamente e di nuovo ricrearsele, senza sosta né limitazioni. Che viaggiare non è solo stare con le persone del gruppo, ma conoscere gente locale e abbracciarne anche gli aspetti più infelici. Che meraviglia viaggiare. Quando lo si fa davvero non puoi farne più a meno, si dice che ne torni con occhi diversi. Con occhi nuovi.
Potessi vivrei tutta la mia vita rincorrendo il sogno di esplorare sempre nuovi confini, e spero di non stancarmene mai.
Sono partita con innumerevoli dubbi e paure istillate perlopiù dai media (grande arma a doppio taglio, seppur da lavoratrice ne faccia strumento anche io) , e sono tornata con ben altre conferme: così come per conoscere le persone bisogna studiarle e non lasciarsi condizionare da giudizi esterni, lo stesso vale per i posti da visitare, talvolta banalmente giudicati e frettolosamente categorizzati.
I brasiliani non sono affatto falsi, bugiardi o aggressivi. Probabilmente, una piccola parte del totale popolazione lo è. Come oer tutti i popoli, zero eccezioni.
E come sempre è bene dosare le parole, perché le stesse possono infierire e approssimare e creare stereotipi, proprio quelli che contribuiscono a diffondere pregiudizi. E i pregiudizi sono impossibili da rimuovere senza la volontà di andare oltre, di approfondire, di non lasciarsi influenzare, ma con rigore bisogna permanere oggettivi. E credetemi, per farlo ci vuole grande pazienza e ancor più grande apertura mentale.
Io auspico questo alle persone che vogliono intraprendere viaggi in posti lontani, o che semplicemente vogliono vivere la vita lontano dalla superficialità collettiva: abbiate ubris, coraggio, follia, usate testa ma lasciatela flessibile; se ci tenete, fate voi stessi quei famosi giudizi, testate con occhi imparziali e neutrali quelle considerazioni ma non prima d’esservi avvicinati al mondo con le vostre stesse gambe.
Conoscere persone belle, chiudere gli occhi e decidere di far scorrere tutte le dicerie si può.
Viaggiare è cambiare opinioni e giudizi, è allentare il discorso di confini e di barriere territoriali. E se davvero esse esistessero solo nella testa di qualcuno?
E poi, quando prendi la funivia per salire a Pan de Azucar e gustare il tramonto della città dall’alto, ti mancano le parole per quanto è bella. Rio, ciudad maravillosa, e’ come un quadro impressionista di Monet che lascia senza fiato.
Dall’alto del suo silenzio assordante e dei suoi infiniti contrasti colorati, commuove.
Manca il respiro da quanto è bella da lassù, con le sue luci, i suoi colori, le sue baie, i suoi promontori, la nebbia, il sole e l’aria frizzante.
Così come lo fa tutto quel territorio così vario e mutevole da non poter essere racchiuso dignitosamente in nessuna foto.
E ti sovviene una frase letta e riletta che calza a pennello di fronte alla contemplazione di questo paradiso:
Il viaggio comincia laddove il ritmo del cuore s’espone al vento della paura.
Perciò ricordatevi sempre che non potrete attraversare e l’oceano se non avrete il coraggio di perdere di vista la riva. La riva della confort zone, dei pregiudizi, delle frasi fatte, del ”sento ma non provo”.
Quindi Vivete e rivivete quelle emozioni, fidatevi dell’istinto e lasciatevi trasportare dal ritmo più vero che fa rima con samba, colores, bossanova, dolcezza, alegria e passione.
Saudade y coragem. C’è un mondo intero là fuori, bisogna solo andarselo a prendere.
L’anno scorso mi son spinta con amici formidabili alla scoperta di una landa meravigliosa e piena di storia, quella del Marocco.
Per dieci giorni di bagaglio a mano ristrettissimo e tanta sete di conoscenza negli occhi, abbiamo davvero visitato il possibile: da Marrakech, a Essaouria, a Casablanca, a Rabat, passando poi per Meknes, attraverso Volubilis, per la preziosa Chefchaouen fino alla imperiale Fes.
Un viaggio davvero tale, fatto di profumi, sapori, spezie, colori mai uguali e territori vari e culture variegate.
Quel che più mi affascina di ogni viaggio però, sono sempre le esperienze fatte di ricordi inusuali e dalle loro persone. Insieme a noi viaggiava Hajar, una bellissima marocchina italianizzata residente a Torino, ma originaria di Rabat.
E se è vero che i viaggi li fanno le persone.. viaggiare con una ragazza così moderna ma con una cultura così differente dalla mia, non poteva che regalarmi un inevitabile “segno”.
Il ricordo più magico della vacanza la ripongo in alcuni dettagli: il conoscere la storia e la religione di Hajar, lo scoprire le tante complicità nonostante punti di vista svariati, l’assistere alle preghiere quotidiane che lentamente divenivano un rito anche per me, e poi quelle chiacchierate genuine su ogni aspetto della vita.
E poi lo scoprire quanta dolcezza, perseveranza e costanza, riponesse Hajar nei riguardo della sua idea di amore, ancora così ingenua, sognante e casta. Ma ricca di sana speranza.
E ancora quella sera famosa e improvvisata, in cui da una notte di hotel a Casablanca ci trovammo a modificare tratta e a dormire ospitati gentilmente dalle zie di Hajar in Rabat. Una notte epica, decisamente poco turistica, ma speciale: non mi succede di rado di venire invitata a dormire a casa di una famiglia intera- dolcissima e iper generosa- di assaggiare un mega cous cous fatto in casa e di bere del buon the alla menta in orario notturno. Ma ancor più inusuale ritrovarci a notte fonda attorniati in tavola, a ringraziare per la gioia del cibo, mentre simpaticamente e assonnatamente proviamo a condividere le nostre storie nonostante la difficoltà comune della lingua.
E come scordare il momento in cui da vera ospite marocchina, son stata letteralmente invitata dalle donne di casa a cambiarmi e ad indossare i loro vestiti regali marocchini, mentre con gli occhi brillanti color ebano delle simpaticissime e dolcissime zie di Hajar, mi sono sentita coccolata come un cucciolino abbandonato.
Un mondo così diverso, ma così prezioso.
Queste sono le piccole cose che mi fanno apprezzare ore ed ore di trasporti, di chilometri, di sballottamenti e che mi ripagano nel profondo.
Ed è proprio quando cercavo di trattenere le risate in mezzo a quello sfavillare di luci e vestiti che mi rendevano così buffamente goffa, che ancora una volta mi è venuta chiara la consapevolezza che il diverso- quando lo impari a conoscere, a interpretare, a studiare senza giudizio- sia bello così com’è, con quelle contraddizioni e quelle stranezze che caratterizzano il mistero dell’Altro.
Un viaggio che cosa non è se non fare i conti, per poi apprezzare, quella diversità: nei sorrisi e negli occhi profondi di chi ancora crede, di chi ti sa mostrare un mondo di valori tutti suoi, e di chi ti rispetta, perchè in fondo- dietro a quegli sguardi timidi e a quella capacità di tenere alti i sogni senza bisogno di condividere troppe parole- siamo così inspiegabilmente simili.
“Benvenuti a teatro. Dove tutto è finto ma niente è falso.”
Non so bene cosa mi abbia spinto ad iscrivermi al corso di iniziazione teatrale quest’anno. Forse la mia smania di esperienze, la mia ahimé incurabile irrequietezza, la mia smodata passione per l’arte, la mia grande curiosità, o forse solo il fatto che molti dei miei più cari amici recitassero da tempo e volessi provarci anche io. Tante le domande che mi ero posta prima di buttarmi a bomba – un po’ come per tutte le esperienze degne di esser tali e che ho più volte vissute a nervi tesi- nel magico mondo della recitazione. Poi senza troppe esitazione l’ho fatto, e bum, pronti e via.
Con il passare del tempo e delle lezioni ho maturato l’idea che il teatro ti conquista, non tanto nel cercare di comprenderlo- perché credete, spesso capire il teatro è alquanto probabile- quanto nel farlo, nel rendersi conto che ogni lezione riusciva a tirar fuori una piccola parte sempre nuova di te stessa. E con il passare dei giorni anche quel nucleo di ragazzi che condividono questa passione assieme diviene una piccola grande famiglia. Improvvisata, ma una famiglia. Avete mai provato a ballare, a far versi, a cambiare voce o peggio a svenire e a urlare davanti a sconosciuti? Beh ecco, questo è il teatro. E molto, molto altro.
Non riesco ancora a capire se sia portata o meno per questa forma d’arte, ma so che ha rappresentato un tassello straordinario di esperienza quotidiana, un qualcosa di forte e di indelebile che ti si appiccica addosso, un pò come quando ti viene in mente una musica o un profumo che non riesci più a cacciare via. Il teatro mi ha insegnato in primis ad osservare, dote questa per nulla scontata ai tempi nostri, e poi a fidarmi del prossimo- che cosa così faticosa, penserete- a coordinarmi con i miei movimenti e con quelli altrui, a improvvisare e ad esasperare. Ma soprattutto, ha permesso che mi lanciassi- con grande divertimento- nel reale e nella finzione e nel reale che diviene magia: nulla è sbagliato, non esiste l’errore, esiste solo la tua capacità di raccontare storie. Questa è una splendida lezione che ho appreso durante questo intenso percorso teatrale. E risate e commozioni e pianti e fatica. Un mix di sensazioni indefinibili.
E nonostante fino alla fine non avessi creduto troppo nella causa, perché mi chiedevo spesso se ne valesse la pena, dopo un tran tran quotidiano fatto di ore di lavoro e di sveglia all’alba, la passione si instaurava pian piano creando costanza.
E poi, il giorno del saggio- finalmente il primissimo approccio con un palcoscenico- magicamente ti diviene tutto così chiaro. E’ come quando dopo un lungo viaggio di ore ed ore di sballottamenti aerei (e io non godo mai ma mai mai in aereo) ti risvegli nel posto tanto desiderato e pensi ”si, ne è proprio valsa la pena”. E’ un impulso elettrico, un attimo che si fa fuggente, un momento tanto intenso quanto unico, adrenalina allo stato puro, una scossa che ti risveglia da ogni torpore, lo scorrere di sangue nelle vene e la voglia di spaccare ogni cosa e di abbracciare tutti allo stesso tempo. E’ tutta Vita che scorre e che non credevi possibile sentire in quel momento così breve.
Mi piace pensare che i sognatori vivano mille vite, e che non siano mai realmente soddisfatti, perchè cercano, sperimentano e ne immaginano di sempre nuove: così è quando reciti, puoi vivere mille vite differenti, crearne di tue, farlo in maniera sempre diversa e unica, infiniti che collimano e che coesistono, ed entrare in un mondo che si è fatto altro.
E forse alla fine, non siamo poi tutti un pò personaggi?
E posso assicurarvi.. non c’è niente di finto in quell’attimo, ma è tutto incredibilmente vero. L’arte che si fa reale e che ti porta ad Essere nel momento, ma esserci per davvero con carne e spirito. E voi, quante volte vi siete sentiti così?
Che poi- a dirla con le parole del grandissimo Vittorio Gassman- è proprio vero che il teatro è una zona “franca della vita, lì si è immortali” (…).
E sapete cosa penso?
La parte più bella del debutto non sta tanto nel recitare- nonostante l’indefinibilità nello spiegare quel cuore che sobbalza e l’emozione sempre diversa e quel mix di sentimenti inspiegabili che ti rimbalza adosso- quanto quell’attimo precedente all’entrata sul palco, quando il tuo maestro e i tuoi compagni- sconosciute persone che hanno incrociato il tuo cammino e ne hanno inevitabilmente stravolto un pò la forma- ti abbracciano, ti urlano parole che riscoppiano di emozioni e, come una centrale elettrica, ti trasmettono una carica piena di coraggio e di desiderio di unione. Si è un tutt’uno. Un momento che si fa eterno.
Perchè alla fine ci sei tu, sei solo con te stesso, ma insieme a quei compagni straordinari che hai imparato a sentire come spalla destra, come quel complice pronto a prenderti nelle difficoltà. Un faro, una guida, un sentirsi insieme invincibili eppure soli. Questa è la magia del teatro, uno scossone che ti piglia e ti butta avanti al pubblico, alle sfide, alla tormenta e alla turbolenza, e ”the show must go on”, come nella vita, e vai, non puoi fermarti ma solo andar avanti, e prendi il volo.
Uno splendido Viaggio che forse è solo l’inizio.
Grazie ragazzi, grazie Arte, grazie Curiosità, ancora una volta non mi sapete deludere.
Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco. (Victor Hugo)
“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c’è elettricità nell’aria. Puoi quasi sentirla… mi segui? E questa busta era lì; danzava, con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. È stato il giorno in cui ho capito che c’era tutta un’intera vita dietro a ogni cosa. E un’incredibile forza benevola che voleva sapessi che non c’era motivo di avere paura. Mai. Vederla sul video è povera cosa, lo so; ma mi aiuta a ricordare. Ho bisogno di ricordare. A volte c’è così tanta bellezza nel ondo, che non riesco ad accettarla… Il mio cuore sta per franare.”
“Ho sempre saputo che ti passa davanti agli occhi tutta la vita nell’istante prima di morire. Prima di tutto, quell’istante non è affatto un istante: si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu… lo starmene sdraiato al campeggio dei boy scout a guardare le stelle cadenti; le foglie gialle, degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada; le mani di mia nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che da mio cugino Tony vidi la sua nuovissima Firebird. E Janie, e Janie… e Carolyn. Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete.”
Occorre sapere che avere un limite ed esserne consapevoli non ti rende limitato, ti rende perfetto, cioè pienamente compiuto, come una grande opera d’arte a cui non si deve togliere o aggiungere nulla.
Questo appare anche dal valore cognitivo del termine finis, visto che esso deriva da “definire” e “definizione”. Ovvero: quando di una cosa non si conoscono i suoi fini, nel senso dei suoi con-fini, la si comprende veramente e se ne può dare una de-finizione.
Per questo Paul Tillich, uno dei più importanti teologi del Novecento, ha potuto scrivere: “il confine è il luogo migliore per acquisire conoscenza”.
Il che ovviamente non significa non aspirare a migliorarsi, significa piuttosto lavorare fino a raggiungere il confine del territorio a noi assegnato, senza volerlo oltrepassare e così sconfinare; significa curare quello che si è e solo quello che si è, senza desiderare di diventare quello che non si è nè mai si potrà essere.
Essere lieti del nome che si porta, del corpo che si ha, dell’intelligenza ricevuta, dei talenti di cui ci ha dotati il destino o la provvidenza: accettare tutto ciò significa raggiungere la propria perfezione, la quale in quanto compimento, è sempre strettamente individuale.
Difficile descrivere l’impatto di quando arrivi in Israele, terra da sempre così complessa, e ti accingi a visitare la magica Gerusalemme.
Città controversa, discussa, di luce, di ombre, di energie e di storia secolare.
Gerusalemme è contesa da israeliani e arabi palestinesi dalla fine della Seconda guerra mondiale. I primi rivendicano di averla fondata e averci costruito il luogo più sacro per l’ebraismo, il Tempio Santo, di cui oggi rimane solo un pezzo, il cosiddetto Muro del pianto: il Muro del pianto era un basamento del Tempio, che oggi possono vedere e visitare anche i turisti rispettando alcune precise regole.
Le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Un impatto davvero forte: quello che più mi ha colpita sono state le giovanissime donne preganti e piangenti (si perché la preghiera sembra più vicina ad un lamento sofferente e ripetitivo) accanto a donne di ogni età. Una ragazza rasta con uno zaino con scritto ‘we can run the world’, che prega accanto ad una donna anziana di ben altro stile. Ma l’effetto che mi produce osservarle è tutt’altro che scomodo, anzi: mi sembra quasi di sentirne un senso di inspiegabile pace.
I secondi, gli arabi palestinesi, l’hanno abitata per secoli, un periodo nel quale hanno costruito l’edificio più emblematico della città, la Cupola della roccia, ovvero quella cupola d’oro che svetta guardando Gerusalemme da lontano. La Cupola della roccia e la vicina moschea di al Aqsa si trovano sulla cosiddetta “Spianata delle moschee”, cioè il luogo dove si trovava il Tempio Santo.
Gerusalemme è un luogo fondamentale e venerato anche per i cristiani, perché si ritiene che lì abbia vissuto per qualche tempo e sia morto Gesù Cristo: nel luogo della sua morte è stata edificata una basilica, la Chiesa del Santo Sepolcro, meta di milioni di pellegrini, di un’energia così potente da immaginarsi Gesù Cristo uscire dalla sua tomba da un momento all’altro.
Tutti gli edifici religiosi più importanti si trovano nella città vecchia, uno spazio di un chilometro quadrato circondato da mura imponenti, costantemente pieno di turisti, pellegrini, soldati israeliani e venditori ambulanti. Sembra quasi di perdersi (che dire, ci si perde!) nei loro labirinti fatti di stradine, scale e scalette irregolari, bazar, intrecci di spezie, profumi e tappeti.
La città vecchia è divisa in quattro quartieri: ebraico, cristiano, musulmano e armeno. Le tensioni non mancano, in particolare il venerdì, quando centinaia di fedeli musulmani entrano nella città vecchia per pregare alla moschea di AlAqsa. Ma la cosa che più mi sorprende è constatare quanto all’interno di quel piccolo mondo pacifico, le stesse culture coesistano e condividano un senso di pace e di rispetto quasi commovente. Uomini bianchi con splendidi occhi azzurri accanto a uomini più scuri, dalla carnagione più arabesca, e poi vestiari tipici ebraici insieme a ragazzini dalla tipica calzatura da ‘aladino’, accenti differenti e costumi ben riconoscibili: eppure tutto convive ‘apparentemente’ insieme, rispettosamente, in un mix di etnie accumunate forse solo dal senso di profonda riconoscenza verso quella che è per tutti la Terra Santa.
Ma è il Monte degli Ulivi a regalarmi un’emozione davvero particolare. A Est di Gerusalemme, oltre il Cedron, si trova questo monte, spesso attraversato da Gesù. Fin dai primi secoli vi furono costruiti chiese e monasteri. Alla metà della discesa dal monte si trova la chiesa del Dominus Flevit, in cui si ambienta il lamento di Gesù su Gerusalemme.
Mi colpisce la navata della Chiesetta, così regolarmente precisa. Ma più di tutto mi imbatto sorpresa nella vetrata della stessa che si apre lungo la spianata che abbraccia tutta la città: non sapevo se scattare una fotografia che rappresentasse la splendida Cupola delle Rocce, o se focalizzarmi sulla bella finestra vetrata della Chiesa cristiana in cui mi trovavo. Poi mi accorsi che la croce scolpita all’interno della vetrata si ergeva perfettamente all’interno del centro del simbolo mussulmano là di fronte. Un gioco di geometrie così perfetto da darmi l’impressione di un messaggio pieno di significato.
La Old City di Gerusalemme risplende davvero di una luce mai vista, sembra quasi riflettere secoli di storia e di culture millenarie direttamente dal bianco del suo marmo, di cui la città è interamente costellata.
Eppure è di sera che la magia si svela: percorrendo le sue viette oscure quando cala il buio e nel silenzio finalmente incombente, il mistero si fa reale: non un suono, non un rumore, solo i suoi profumi caratteristici, le sue luci tra le ombre. E’ nel buio che quel pezzo di terra sembra manifestare tutta la sua dose di spiritualità.
E non esiste illusione che tenga. Gerusalemme è davvero un piccolo universo irradiante di una luce non comune, unica di una superficie così piccola per uno spazio così conteso e così tanto colmo di storia.
Gerusalemme emana un calore senza eguali. E sian perdonati anche la stanchezza, la difficoltà nel farsi capire, i continui sali-scendi su per le viuzze districate. Quando arrivi in cima al Monte Degli Ulivi e la osservi, così, silenziosa, distinta e luminosa di tutta la sua bellezza, la perdoni eccome: quel posto dove i contrasti regnano perenni, quel posto dove il tempo sembra fermarsi definitivamente.
Non riesci proprio a dimenticarti della magnificenza inspiegabile di Gerusalemme, anche denominata “the light of the world“.
La Gerusalemme del mistero, luogo della presenza salvifica di Dio, assume dei significati che possono essere letti in tutti gli aspetti della vita e possono riferirsi a mille realtà della ricerca che Dio fa dell’uomo e del cammino dell’uomo verso Dio.
“Tutta quella città… non se ne vedeva la fine. La fine, per cortesia, si potrebbe vedere la fine? E il rumore. Su quella maledettissima scaletta… era molto bello, tutto. E io ero grande con quel cappotto, facevo il mio figurone, e non avevo dubbi, era garantito che sarei sceso, non c’era problema.
Col mio cappotto blu, primo gradino, secondo gradino, terzo gradino. Primo gradino, secondo gradino, terzo gradino. Primo gradino, secondo… Non è quel che vidi che mi fermò. E’ Quel che non vidi. Riesci a capire, fratello? E’ quel che non vidi… lo cercai ma non c’era, in tutta quella sterminata città c’era tutto tranne… C’era tutto. Ma non c’era una fine. Quel che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo.
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere.
Ma se tu… Me se io salgo su quella scaletta, e davanti a me… ma se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi. Milioni e miliardi di tasti, che non finiscono mai e questa è la vera verità, che non finiscono mai e quella tastiera è infinita. Se quella tastiera è infinita, allora… Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.
Cristo, ma le vedete le strade? Anche solo le strade! Ce n’era a migliaia! Come fate voi laggiù a sceglierne una? A scegliere una donna. Una casa, una terra che sia vostra, un paesaggio da guardare, un modo di morire. Tutto quel mondo… Quel mondo addosso che nemmeno sai dove finisce… e quanto ce n’è. Non avete voi paura di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità… solo a pensarla? A viverla…
Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così.
La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò da questa nave… al massimo, posso scendere dalla mia vita.”
“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sä Che a ne liga e a ne porta ‘nte ‘na creuza de mä…”
Così cantava il grande Fabrizio De Andrè decantando la sua terra selvaggia e rocciosa, marittima e capricciosa.
E così, oggi più che mai, il 31 ottobre 2018 di una mattinata uggiosa e grigia, va anche a me di dedicare una dolce riflessione sulla sempre cara Liguria.
Un pensiero alla mia seconda casa, alla meta immancabile di tanti splendidi viaggi di giri straordinari, punto fermo di una vita intera, di amicizie secolari e di compagnie infinite.
E’ il ricordo dei miei nonni quando ancora ti portavano il gelato, il ritorno tanto atteso di persone che si ritrovavano puntalmente dopo un anno solare, di novità e di tradizioni.
Rapallo per me è famiglia, è storia, è mare calmo e in tempesta, è tuffarsi dalle sue boe con il sale ancora appiccicato alla pelle, è il ricordo di prime esperienze adolescenziali, di complicità e di silenzi, di risate e di emozioni più vere.
Rapallo è un’ infinità di pensieri, di malinconie struggenti e di contrasti. Di gente burbera, che andava e che veniva, quasi senza voler lasciare nulla di sé. Di piatti tipici, di tempi senza ore, di giorni che diventavano notti e di nuovo giorni che si ergevano luminosi di fronte allo stesso silenzioso e fedele Mare.
Ma quanta vita scorsa sotto quei colori.
Quanto e quanto hai saputo dare a chi sapeva prenderti per quella che sei, selvaggiamente ligure e marinaia.
D’altra parte non posso che essere più in linea con Vincent Van Gogh quando sosteneva che : “I marinai sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra.”
Altra chiave importante per cercare di avvicinarsi il più possibile al pensiero filosofico eracliteo è senza dubbio la teoria del divenire. Tutto il mondo viene considerato come un enorme flusso perenne nel quale nessuna cosa è mai la stessa poiché tutto si trasforma ed è in una continua evoluzione. Per questi motivi, Eraclito identifica la forma dell’Essere nel Divenire, dacché ogni cosa è soggetta al tempo e alla sua relativa trasformazione. Eraclito sostiene che solo il cambiamento e il movimento siano reali e che l’identità delle cose uguali a se stesse sia illusoria: per Eraclito tutto scorre (panta rei). Il panta rei è una conseguenza di polemos (guerra, conflitto), che regna su tutto. Di conseguenza Eraclito di Efeso non è il filosofo del “tutto scorre” ma del “tutto scorre in quanto risultato della tensione continua degli opposti che si fanno guerra”.
« Tutto scorre, non ci si può immergere due volte nello stesso fiume »
A proposito del divenire, Eraclito ha detto: “Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume sono gli stessi”.
Il fuoco come ‘stoichèion’.Se il principio unitario che accomuna tutte le cose del mondo è il divenire, per Eraclito l’elemento fisico del quale tutti gli altri elementi sono composti (lo stoichèion), è il fuoco. Questo perché il fuoco è visto come elemento destabilizzante, in grado di provocare quel cambiamento che permette alle cose di mutare da uno stato all’altro.
“Guarda l’invisibile e vedrai cosa scrivere”-Bobby diceva sempre così. Era con la gente invisibile che lui voleva vivere..quelli a cui passiamo davanti ogni giorno,quelli che a volte diventiamo, quelli dei libri che vivono solo nell’occhio della mente di qualcuno.
Era un uomo destinato ad attraversare la vita, non a girarci attorno. Un uomo sicuro che la via più breve per il paradiso passasse attraverso l’inferno. Ma la sua vera disgrazia era una mente troppo esaltata e mutilata da troppe storie e dall’aver scelto di diventare una di esse. La tragica debolezza di Bobby Long fu il suo amore per tutto ciò che vide, e immagino che se la gente crede in qualche forma di giustizia, Bobby l’abbia avuta grazie a una canzone.
“Se un epitaffio dovesse raccontare la mia storia, ne avrei uno breve già pronto sulla mia lapide:
Non so bene a quel tempo a cosa pensassi, se non che finalmente avrei oltrepassato la soglia dell’università, con una tesi faticata che non avrei potuto sentire più mia. Ma una cosa adesso la so, ovvero che gli esami da lì a poco non sarebbero finiti, ma anzi..la cosa meravigliosa della vita è che non finisce mai di metterti alla prova, e per una alle quali le sfide altro non sono che benza che ne accendono il moto, beh, è solo regolarità. Ah, non so dirvi bene che cosa mi abbia dato in maniera pratica la mia laurea, (in un mondo dove senza subbio conta di più avere like, essere influencers, o youtubers o si salvi chi può) se non che quel preciso giorno lì si annoveri tra i momenti più belli della mia fanciullezza..
Ma una cosa, rivedendo con una certa saudade questa foto, l’ho imparata: non dimenticarti di chi è sempre stato là di fronte ai tuoi ‘progressi’ e ai tuoi traguardi, perchè alla fine ciò che davvero conta è il cammino ed esserselo goduto in buona compagnia.
Che poi diciamocelo.. di sicuro riconosco da chi abbia imparato a posare con no-chalance, ma sempre e solo con la metà del suo stile.
Grazie di cuore nonno, e grazie alle splendide persone che ci sono sempre state.
“Principles for the Development of a Complete Mind: Study the science of art. Study the art of science. Develop your senses―especially learn how to see. Realize that everything connects to everything else.”
“E’ fiume gelato che in primavera resuscita e con una pressione lenta ma inesorabile manda in frantumi il pesante mantello di ghiaccio. è una forza che ti prende e ti schiaccia contro le pareti della stanza e non puoi reagire,devi ascoltare. è un turbine che ti investe e la tua vita non è piu’ la stessa. è il Rock. è il rock che ti fa sentire qualcuno quando per il mondo non sei nessuno.”
11.06.2017 Imola, Guns& Roses:
E poi ci sono i concerti, quelli veri, quelli che sono in grado con un solo battito di trasportarti altrove e di farti emozionare come non succedeva da tanto, troppo tempo. Perché la musica e’ vita e perché non esiste paura ne’ angoscia ne’ cattiveria quando lei ti vibra dentro con un impeto così potente. E tutto intorno non hai più persone ma luci, energia pura e allora in quel momento capisci che non c’è male da temere- visti i tempi che corrono-ma solo tanto troppo star bene. Perché la musica e’ amore per definizione. Una famiglia che come te in quel momento invoca la bellezza.E quando le miliardi di teste che si muovono allo stesso modo, gioendo e vibrando, diventano un tutt’uno e allora si, comprendi che vale la pena ancora una volta rischiare di sentirsi vivi. Questo per me è il rock, il sound dell’anima che brinda alla vita. #stayrock
Quando arrivi a Hiroshima e decidi di visitarla, nonostante i dovuti dubbi e le preoccupazioni, l’effetto che hai è così strano.
Sarà che quel giorno di ennesimo giro nipponico, dopo km e km di cammino e di solo tre ore in media di dormita per notte, il mio fisico ha patito i primi ‘acciacchi’ da strapazzo; sarà che la parole Hiroshima mi ha sempre destato inquietudine, sofferenza, rispetto; sarà che fin dai tempi della scuola la sentivo nominare e nominare quasi come se quel traumatico evento l’avessimo patito un pò tutti, silenziosamente e attentamente, scorrendo i titoli dei capitoletti tra i libri di storia.
Non so bene cosa mi abbia spinto a percorrere quel giorno assolutamente sola senza compagni di viaggio, (un giorno avventuroso e da annoverare fra i più storici della mia vita, ma questa è un’altra storia), quella tappa culturale così temuta, così importante.
Ma, da tipa curiosa e ostinata qual sono, dentro di me qualcosa mi ha detto che dovevo andarci a tutti i costi, senza sé e senza ma. Dovevo vederla, dovevo sentirmi parte di un mondo spesso così dimenticato, reduce da un evento fra i più brutali mai avvenuti nella storia dell’umanità.
Ed ecco che, dopo due ore e mezza di rilassante viaggio da Kyoto a bordo di uno splendido treno Shinkansen (ormai fedele e affettuoso amico), esco e varco l’uscita della fermata dal nome “Hiroshima”.
Mi dirigo munita di cartina della città a osservare (con solo un’oretta e mezza di autonomia) immediatamente il fulcro di ciò che desideravo vedere, il famoso ‘cerchio’ (perché geograficamente si tratta proprio di un confine a forma circolare) che delimitava la zona dello scoppio della bomba del famoso e nefasto 6 agosto del 1945.
La mia prima tappa è stata quella del Museo della Bomba Atomica di Hiroshima, un museo modernissimo e spazioso, da lunghi corridoi bianchi e così incredibilmente silenziosi.
Un intero padiglione ospita una fotografia a 360° del panorama di Hiroshima devastata dalla bomba, realizzata con 140.000 piastrelle sulle quattro mura (il primo numero stimato delle vittime): l’ingresso di questo memoriale è sovrastato da un orologio fermo alle 8.15, l’ora dell’esplosione.
E’ stato lui che più di tutto mi ha parlato, lasciandomi un senso di incredulità e di smarrimento per tutto il resto della visita.
Alle 8.15 quell’orologio si è fermato per sempre, e con sé si è fermato per un istante tutto il Giappone, e a seguito il mondo intero.
Quando di fronte a me osservo con i miei occhi oggetti storici, ritrovamenti e incedibili reperti di un’epoca così decisiva, mi sento così piccola, e riscopro quanto sia reale e contemporanea la sua materia. Materia del tempo che mai s’arresta, ma in quel preciso istante si è fermato con le lancette ancora là, immobili, quasi come a volerci dire che quell’istante fosse davvero troppo anche per il seguire imperterrito del tempo.
Così seguo la visita fra una serie di foto strazianti e di memorie, trattati storici e scientifici sull’effetto del nucleare, tutto incredibilmente utile quanto surreale. “E’ successo davvero“, continuo a ripetermi fra me e me.
Sorvolando le innumerevoli immagini impattanti del museo, mi soffermo su una zona che mi riporta alla memoria uno dei libri più profondi e belli che abbia mai letto, “Il grande sole di Hiroshima“: davanti a me, un corredo fotografico circa la storia della giovane Sadako Sasaki, bimba giapponese che visse l’incubo della bomba, sopravvivendo allo scoppio, ma accusando anni dopo la morte a causa dei devastanti effetti che avrebbero provocato le radiazioni con gli anni.
“Il leggero chiarore diventò una luce abbagliante. Gli occhi di Sadako si spalancarono. Contemplavano il cielo, nel suo eterno splendore”.
Si dice che mentre attendeva, ignara, la sua morte, Sadako non abbia mai perso la sua grande voglia di vivere, e che abbia continuato fino alla fine a costruire mille gru di carta, con la convinzione che l’avrebbero aiutata a guarire.
Ciò spiega il perché le gru colorate con i colori dell’arcobaleno costituiscano il simbolo stesso della città di Hiroshima e dell’invocazione alla pace: un’intera zona del museo è strettamente dedicata a piccole composizioni di gru da parte di bambini e da pensieri per Sadako, divenuta leggendaria a livello mondiale, e per numerosi altri bambini che come lei hanno dovuto soccombere a causa di una guerra spietata.
Gru di carta e arcobaleni che si ritrovano anche lungo tutto il parco del Memorialedella Pace, al di fuori del Museo, dove l’attenzione è rivolta ai bambini di Hiroshima e alle loro gru di carta, simboli di pace, di innocenza e di libertà.
Continuando a passeggiare, il senso di desolazione e di inquietudine mi sembra via via scomparire, sostituiti da una certa pace dei sensi, sarà forse perché il verde e i fiori dei giardini che compongono il parco sono tornati a brillare con i colori accesi di maggio.
Mi perdo in quell’istante, ma non sono turbata, tutt’altro; mi lascio trasportare da quell’evasione sensoriale tutta giapponese, permettendo che ricordi di guerra spariscano, portando avanti quelli di una calma e apparente serenità.
La città è perfettamente moderna, si è alzata dalle ceneri e si presta alla vita meravigliosamente, caratterizzata da un sole caldo e da canali lungo tutto il confine del parco.
Una città non diversa dalle straordinarie metropoli giapponesi, moderna ed efficiente, che più di tutte ha dimostrato la strabiliante operatività dei suoi abitanti nell’averla resa una città rinnovata e con la spiritualità ancora più forte.
Arrivo alla fine della mia passeggiata, e non posso non prestare lo sguardo al monumento che più di tutti è divenuto simbolo stesso dello scoppio della bomba, l’Atomic Dome, ciò che rimane dell”edificio progettato dall’ architetto ceco Jan Letzel risalente al 1915: il palazzo fu destinato a ospitare la fiera commerciale della prefettura di Hiroshima.
Di fronte ad esso un cartello spiega che Il 6 agosto 1945 l’esplosione nucleare avvenne a pochissima distanza dall’edificio (con ipocentro a soli 150 metri di distanza), unico a sopravvivere (ma solo in parte) alla strage. Questa costruzione rimase nello stesso stato in cui si trovava subito dopo l’attacco atomico, e viene oggi utilizzata come un monito a favore dell’eliminazione di ogni arsenale nucleare e un simbolo di speranza.
Non so bene definire la sensazione avvertita nel momento della visione in vicinanza del monumento, ma so di per certo che di colpo ho avvertito un calore così forte, ma così forte, da volermi convincere di andare e di tornare a raggiungere i miei amici. L’ora di autonomia era già volata, e avrei dovuto riprendere il treno per il mio rientro a Tokyo.
Eppure si, quel calore forte quasi come il sole a ferragosto l’ho percepito bene, ed era così reale da lasciarmi ancora perplessa e stordita.
Quel momento faceva male agli occhi.
Così mi incammino con passo spedito, raggiungo uno dei tanti pulitissimi ed elegantissimi taxy giapponesi, saluto quella città così tranquilla, e un fruscio di vento e un lieve rumore di uccellini che volano in cielo mi riporta alla realtà di un clima nuovamente rasserenato e quieto, fatto anche di bambini che giocano sui marciapiedi perfettamente ricostruiti, di coppie innamorate, di ragazzi in bicicletta. Di Vita nuova, di vita piena di energia.
Perchè si, non mi pento di aver visitato in solitudine quella città, perchè l’emozione di aver potuto fare un salto nel tempo in due ore appena di passeggiata, non la scorderò mai.
Mi allontano dentro il taxy e mi giro quasi come di impulso, salutando con lo sguardo l’Atomic Dome che si fa sempre più piccolo, ma che rimane là, indistruttibile: e ripenso alla piccola Sadako che ancora gioca a costruire gru di carta mentre guarda al mondo speranzoso e sorride come solo i bambini sanno fare.
Con tutta la grinta di chi ha vissuto una tragedia e non ha mai perso la fantasia e la gioia.
Così per me è stata e sarà sempre Hiroshima, fenice risorta dalle tenebre e dalle ceneri più scure.
Giusto in tempo per tornare in stazione, un ultimo sguardo veloce all’epitaffio del memoriale che sembra ammonire in silenzio:
“Riposate in pace perché noi non ripeteremo l’errore.”
Inutile negarlo: le campagne marketing della Nike sono sempre impeccabili.
Volenti o non volenti, d’accordo o in disaccordo, le loro pubblicità rimangono impresse nella memoria e fanno discutere.
E’ quanto è accaduto con l’ultima chiacchieratissima campagna della Nike in Medio Oriente, un elogio al coraggio e all’intraprendenza delle donne nel praticare liberamente le proprie attività sportive, contraddistinta dalla voce fuoricampo che recita : “Che cosa diranno di noi?” -“What Will They Say About You?“, e dal claim finale: “Forse diranno che sei la prossima campionessa”.
In un periodo storico come quello che sta vivendo ora l’America di Trump, tra un’ondata di Islamofobia e una lotta alla chiusura di confini, Nike rischia e vuole arrivare a quell’un milione e sei di mussulmani nel mondo ottenendo seguito e fedeltà modernizzandosi alle esigenze più basiche.
E’ infatti apparso pubblicizzato il primo Hijab firmato Nike, in tessuto poliestere e traspirante, adatto a tutte quelle donne che vogliono praticare la loro passione sportiva, sentendosi a proprio agio in ogni occasione.
Si chiama “Nike Pro-Hijab“, e sarà commercializzato il prossimo anno, a pennello per le Olimpiadi invernali del 2018 in Corea del Sud.
“Ero davvero colpita ed emozionata quando ho saputo dell’iniziativa – ha affermato alla Cnn Money la pattinatrice Zahra Lari, testimonial della campagna pubblicitaria – ho provato diversi modelli, offrono ottime prestazioni”.
Effettivamente tante sono ormai le atlete musulmane che hanno dichiarato di trovarsi confortevoli indossando il velo anche e soprattutto nelle attività sportive.
Una cosa è certa: la chiave di volta della Nike è sempre stata quella di partire da un prodotto per vendere l’intero brand, e non viceversa.
Riuscirà il logo “Pro Hijab” a convertirsi nel nuovo “Just do it”?
Senza dubbio l’intento è già molto perspicace.
Personalmente trovo che il la risposta al claim della campagna “What will they say about you?“- “Maybe they will say that you outdid all expactations“- sia un grido forte e di accezione universale nei confronti di tutte le grandi o piccole donne che riconoscono di potercela fare con le proprie forze.
Pro Hijab, Nike
D’altra parte si sa, Nike ha sempre desiderato battere qualsiasi limite, e forse – almeno strategicamente parlando- sa farlo molto bene.
La trasmissione del potere regale da padre in figlio era, nell’Antico Egitto, consacrata dalla leggenda e della disputa tra Horus e Seth.
Si racconta che un tempo Osiride fosse il re di tutti gli dei. Secondo una versione del mito, il fratello Seth, volendo usurpare il trono di Osiride, ne dilaniò il corpo in tanti pezzi, che sparpagliò per tutto l’Egitto.
La moglie di Osiride, Iside, insieme alla sorella Neith raccolsero ogni pezzo e, con l’aiuto di Anubi, lo ricomposero trasormandolo così in una mummia. In questo modo Osiride rinacque e divenne il dio dell’Alidlà.
Iside riuscì a farsi ingravidare dal marito e da questa unione nacque il dio Horus. Diventato adulto il dio falco Horus si scontrò con Seth per riottenere il trono del padre.
Gli dei, per porre fine alla diatriba, si riunirono in consiglio e Ra decise di chiedere alla dea Neith chi fosse il legittimo successore di Osiride.
La dea scelse Horus, che, da quel momento, divenne re, mentre Seth divenne il dio del deserto e dei paesi stranieri, simboleggiando così la lotta tra la fertilità della valle del Nilo e il deserto arido.
Horus è raffigurato con la corona doppia con testa di falco o di un falco solare alato, che serviva come emblema di protezione delle porte e dei corridoi dei templi. Con suo padre, Osiride e Iside formarono la triade più importante nella mitologia egizia.
Horus Faucon Musée du Louvre
Nell’ideologia regale egizia, ogni faraone che muore è Osiride, ed il figlio che gli succede al trono Horus.
Stele dedicata a Atum e Osiride dallo scriba regio, sovrintendente ai granai del Sud e del Nord, Amenhotep Museo Egizio di Torino
Sono una donna nata nell’epoca sbagliata. Ed è qualcosa che nulla potrà emendare. Non so se il futuro serberà memoria di me ma, se ciò dovesse accadere, mi auguro di non essere mai considerata una vittima, bensì una persona che ha coraggiosamente scelto i propri passi e ha pagato senza paura il prezzo che le è stato imposto.
Margaretha Geertruida Zelle, ai più nota come Mata Hari, non è stata solo una spia, una danzatrice affascinante e capace di incantare fra gli uomini più potenti e invidiati, ma soprattutto una donna di grande personalità, emblema della libertà che si incarna in una femme fatale dotata di un carattere senza precedenti. Ricca non lo era, forse, ma ha danzato sui palchi di molti teatri, ha avuto amici e amanti importanti, era conosciuta da molti e tutti meraviglia nel mondo dorato della Belle Époque. Dall’inizio della guerra ha incontrato e amato tenenti, colonnelli e capitani, dai quali, a quanto si dice, ha carpito informazioni da vendere al miglior offerente. Così, nonostante le prove inconsistenti, Mata Hari viene arrestata, processata e condannata a morte.
Insomma, una donna di cui si può disquisire su tutto, ma ci si trova d’accordo sul fatto di non poterla additare come una persona indifferente.
Mata hari è quella stessa impersonificazione della definizione tutta francese de La Vraie Vie, la vita vera, fatta di momenti di bellezza indicibile e di profonda depressione, di lealtà e di tradimenti,di paure e di momenti calmi e tranquilli.
Una vita come molte altre, ma Vera, intensa, controversa, combattuta.
Opera d’arte umana, Mata Hari conferma e raggiunge, fin all’atto estremo della morte, quella spettacolarizzazione e quell’evasività tanto ricercate ed adulate in vita, affrontando a testa alta i suoi carnefici al suono di un “Sono pronta”.
«Mata Hari – sostiene Paulo Coelho – fu una delle prime femministe: ha sfidato gli uomini dell’epoca e scelto l’indipendenza. Dalla sua storia possiamo trarre una lezione anche oggi, quando gli innocenti pagano ancora con la vita le accuse dei potenti»
Una donna complessa e in linea con la modernità, nel suo essere imprendibile e fuori dagli schemi, saggia, amante del bello e della semplicità, ma in perenne contrasto con una vita fatta d’arte, di scandali e di difficoltà.
Stratega, tattica, invidiata, spesso odiata; ma dotata di grande profondità, sensibilità e in perenne speranza nei confronti dell’Amore, come lo si deduce da uno dei tanti estratti dei suoi scritti:
«C’è un mito greco che mi ha sempre affascinato e e che, penso abbia molti elementi che ricorrono nella vostra storia, perlomeno in una variante adottata presso alcuni popoli.
C’era una volta una bellissima fanciulla , ammirata e temuta nel contempo, perché si mostrava troppo indipendente. Si chiamava Psiche.
Disperato perché la figlia sarebbe rimasta nubile, il padre si rivolse al dio Apollo, il quale escogitò una soluzione: la giovane doveva salire sulla cima di una montagna, vestita a lutto, e trascorrere lì la notte, in solitudine. Prima dell’alba, sarebbe comparso un serpente che l’avrebbe sposata. La giovine seguì gli ordini del Dio, e, giunta sulla cima della montagna, infreddolita, si addormentò. Il giorno dopo si svegliò in un palazzo bellissimo e scoprì di essere la regina di quelle terre. Ogni notte veniva raggiunta dal suo sposo, il quale, in cambio dell’amore e della passione, aveva previsto che si impegnasse a non cercare mai di vedere il suo viso.
Dopo alcuni mesi, la giovane era follemente innamorata dello sposo, che si chiamava Eros. Adorava conversare con lui, provava un piacere immenso nel fare l’amore e si sentiva trattata con un rispetto sincero e profondo. Tuttavia viveva nel timore di essere sposata con un serpente orribile.
Una notte, non riuscendo a frenare la curiosità, attese che il suo sposo si addormentasse, scostò delicatamente il lenzuolo e, alla luce di una lampada a olio, potè ammirare il volto di un uomo dalla bellezza incredibile. Una goccia d’olio cadde dal lume e risvegliò Eros che, sentendosi tradito nella sua unica richiesta, scomparve.
Ogniqualvolta ripenso a questo mito, mi domando: potremo mai scorgere il vero volto dell’amore? E comprendo ciò che i greci intendevano insegnare con quella storia: l’amore è un atto di fede nell’altro, e il suo volto misterioso deve restare sempre celato.
Bisogna vivere ogni momento con trasporto ed emozione perché, se cerchiamo di decifrarlo e comprenderlo, la magia di quel sentimento supremo scompare. Ecco perché dobbiamo seguire i sentieri luminosi e tortuosi, accettare che ci conduca sulla vetta più alta o nel mare più profondo, sempre confidando nella mano che ci guida. Se vinceremo i nostri timori, ci risveglieremo in un palazzo fiabesco; se avremo paura di compiere una rivelazione, non otterremo mai nulla.»
Spiegato, forse, il più grande errore della splendida e indecifrabile Mata Hari: dopo anni e anni vissuti in tortuose montagne brulle, aveva cessato di credere all’ amore, svilendolo e trasformandolo nel proprio servo.
“L’amore non obbedisce a nessuno e tradisce solo coloro che tentano di decifrarne il mistero.” (cit. La Spia, Paulo Coehlo).
E così, mi piace pensare che sì, la sua unica immensa colpa è stata proprio quella di essere una donna libera.
Una libertà che echeggia in eterno e che rende contemporaneo anche un remotissimo 1917.